Per troppi anni nel Mezzogiorno, più che nel resto d’Italia, l’Ue è stata identificata con il cosiddetto vincolo esterno («Ce lo chiede l’Europa») o con i benefici concessi dal bilancio comunitario alle imprese e agli enti locali («Ci sono i fondi europei»).
Non c’è stato un serio confronto sul senso dell’integrazione europea, ma una passiva accettazione dei vincoli e delle opportunità legati allo «stare in Europa». Così in pochi anni gli italiani, soprattutto al Sud, sono diventati dai più europeisti i più euroscettici. A questo hanno certamente contribuito le accuse, diffuse tra tutte le forze politiche, alla «euroburocrazia» di Bruxelles: il facile capro espiatorio dei mali nazionali. Invece i problemi italiani hanno cause, non solo effetti, domestici, mentre solo europee possono essere le soluzioni. Non è chiudendo le nostre frontiere ai prodotti agricoli spagnoli o greci (per non dire di quelli tunisini o canadesi) che l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia ritroverà smalto e conquisterà quote crescenti del mercato mondiale. Non è certo tornando alla «liretta», cioè svalutando, che le famiglie italiane diverranno più floride o le imprese meridionali assumeranno più giovani. Oggi a vincere la sfida della crescita sono le aree del mondo che più sanno offrire qualità e innovazione, accettando la competizione globale: come spesso ripete il ministro Carlo Calenda, le imprese italiane devono cogliere l’opportunità di «importare» i tassi di crescita mondiali, più elevati di quelli italiani ed europei, offrendo il meglio del Made in Italy in ogni settore produttivo. La svalutazione, connessa all’uscita dell’Italia dall’euro – la proposta di Lega e 5 stelle – corrisponderebbe invece a una enorme tassa patrimoniale, abbattendo il valore del patrimonio delle famiglie, e a un gigantesco taglio dei salari reali, riducendo, per gli effetti sul cambio, il potere di acquisto degli italiani. Con l’iniziativa politica «Forza Europa», che presenteremo domani a Napoli (all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in via Monte di Dio 14), vogliamo opporre alla retorica anti-europeista e sovranista un messaggio chiaro e coraggioso: l’Europea aperta e unita è stata la più grande conquista di pace, libertà e benessere che il Vecchio Continente abbia vissuto nella sua storia plurisecolare e rimane la principale chance delle aree più povere e periferiche per integrarsi nel percorso di crescita comune. Quel che è avvenuto in Polonia, può avvenire in Campania.
Per tutto il Mezzogiorno, questa è un’occasione per colmare un divario che la storia nazionale, per il suo particolarismo politico e territoriale e per la sua caratterista «dis-unità», ha finito per approfondire, fornendo una serie di incentivi perversi – spesa pubblica improduttiva, intermediazione pubblica parassitaria, democrazia «di scambio» – all’impoverimento e alla marginalizzazione. Questo vale anche su un tema che investe in primo luogo le regioni meridionali, quello dell’immigrazione. Non stiamo assistendo al fallimento dell’Europa, ma a quello della non Europa, cioè alla rappresentazione di cosa succede se un problema sovranazionale i migranti non fuggono dalla Libia verso l’Italia, ma dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa – è gestito senza alcun tipo di coordinamento o di responsabilità condivisa tra gli Stati membri. La fiumana di migranti che vogliono andare in Francia, in Germania, in Olanda o nel Regno Unito diventano un problema siciliano, pugliese, calabrese o campano. Da tutti i punti di vista, anche da quello della sicurezza, l’Ue è quindi il nostro futuro migliore.