La nostra coscienza della guerra è quasi sempre parziale, difettosa, anestetizzata. Per lo più si tratta della «guerra degli altri», a noi difficilmente comprensibile, ridotta a un fenomeno selvaggio che non ci appartiene. Per qualcuno è ancora un «fattore dinamico» della storia, una – triste e ineluttabile – necessità. Si parla allora di guerre «difensive» (la logica è che occorre salvare sempre sé stessi) e ci si abitua, aumentando la cultura del conflitto già così diffusa nelle nostre società. Eppure dovremmo stare ben attenti: sono giudizi di chi la guerra non l’ha vissuta, o l’ha lasciata in mano agli «specialisti» (i militari di professione), rimuovendola. Ma la guerra esiste, segna il declino dei popoli, non risolve le contese, si installa e permane. Si fa sempre più vicina, fa in modo che la maggioranza si familiarizzi a essa. Poche le parole che possono scrollarci di dosso tale assuefazione. Tra le più penetranti vi sono quelle dei bambini. L’orrore della guerra infatti, è tanto più horroroso (utilizzo volutamente il termine spagnolo perché rende meglio) se detto con le parole dei bambini. Soprattutto se si tratta di una guerra di annientamento, come in quella dei nazisti (e dei loro alleati) contro la Russia, a quell’epoca sovietica. E i bambini parlano in un libro uscito lo scorso anno che andrebbe letto e riletto. Si tratta di Gli ultimi testimoni, della Premio Nobel per la Letteratura, la bielorussa Svetlana Aleksievic. Nel suo stile scarno e realista, Aleksievic ci riporta le testimonianze dei bambini russi e bielorussi che sopravvissero a quella tragedia, nella loro memoria da anziani. Non è troppo tempo fa. È un libro struggente, che si apre con una citazione di Dovstoevstíj: «Nessun progresso, nessuna rivoluzione, nessuna guerra potrà mai valere anche quella sola piccola lacrima di bambino. Essa peserà sempre. Quella sola lacrima piccolina… ». Di lacrime è pieno il libro: per la paura, per il buio (tutto è scuro durante la guerra, nero: i colori spariscono), per l’odore (la guerra ha i suoi odori ripugnanti), per il freddo, la fame (davvero nera), la fatica, la sporcizia, il fuggire, la vita nei boschi, per la perdita della casa, dei propri cari, per le distruzioni, per la violenza, l’abbandono, per gli orrori che sono costretti a vedere o a subire… Ma gli aspetti più laceranti del libro sono due: le donne, soprattutto le mamme, e la solitudine. Il rapporto con la mamma (solo raramente il padre), è l’unica ancora di salvezza a cui quei bambini credono fino alla fine. Anche quando la mamma non c’è o non c’è più, la aspettano – qualcuno la aspetta ancora. Queste donne che si improvvisano in tutto, fanno di tutto pur di salvare i propri figli dall’orrore. Anche abbandonarli ad estranei, spingendoli lontano da sé. Mamme o nonne (ma anche tante “zie”) che si ammazzano di fatica, che si levano il cibo di bocca fino allo svenimento, che si lasciano morire purché i bambini vivano. Donne eroiche nel silenzio, nella fuga, nella disperazione, nell’inventiva davanti al mostro della guerra. E poi «mamme improvvisate», donne che salvano i figli degli altri, che prendono per mano bambini soli, mai visti prima, pur di salvarli. Donne che non si arrendono all’inevitabile, che cercano la normalità in mezzo al terrore, che creano un mondo di protezioni. Donne sole, senza aiuti, che si alleano tra di loro pensando al dopo, quando nessuno ci crede più. Donne che come scrive Anna Bravo in un altro libro da leggere La conta dei salvati -, adottano «le tattiche elettive per risparmiare il sangue», diventando così «le titolari quasi in esclusiva della manutenzione della vita». Gli uomini non ci sono: o combattono o sono già morti. Gli uomini muoiono presto in questo libro; restano le donne. Infine, la solitudine di quei bambini, quando la mamma viene ammazzata davanti ai loro occhi e restano abbandonati a sé stessi. E qui scopriamo come si fa a sopravvivere a 4,5,6 anni, da soli contro tutto. Bambine che a loro volta si improvvisano mamme per i propri fratellini, bambini che prendono il treno da soli per «andare da mamma» senza sapere dove vanno, che si muovono di casa in casa a cercare rifugio, persi per l’immensità del Paese, nascosti nei boschi, nutrendosi d’erba e foglie, inviati a fare gli schiavi in Germania o portati da soli in centri per l’infanzia in Siberia o Kazakistan. Molti non si ricordano nemmeno il loro vero cognome… e non ritroveranno mai più i parenti. Coloro che raccontano sono i superstiti, ma quanti ne sono morti! A milioni. A leggere il libro ci si commuove, ma sorge anche una domanda: guardiamo con gli stessi occhi le guerre di oggi? O siamo così induriti da rimandare a domani, se lo vorremo, cioè a una commozione postuma? Aleksievic non è solo la archivista di un mondo sparito, rinvia alle guerre di oggi. Dalle sue pagine salta agli occhi come i bambini «capiscono»: anche piccolissimi è chiara per loro la differenza tra bene e male, acuto il senso del pericolo e le strategie per evitarlo. Per noi occidentali le guerre sembrano piuttosto roba di altri, fastidio e minaccia alla nostra tranquillità. Ma dimentichiamo che le guerre sono tutte uguali. Anche la più “giusta” fa cadere quella lacrima che pesa più di tutto. Guerre di ieri e guerre di oggi: in ognuna esiste il dramma dei bambini e delle loro mamme, in tutte le donne salvano… e gli uomini sono per lo più assenti, mutile intenerirsi a cose fatte, se ciò non provoca una reazione sull’oggi. Buonismo? Piuttosto buonsenso: ogni guerra genera mostri che ci raggiungono, sempre a ogni epoca e latitudine. Leggere le storie della Seconda guerra mondiale, tutte e non solo questa, fa bene: insegna come nascono e come si formano, a che condizioni scoppiano; cosa accade e cosa potrebbe non accadere… insomma aiutano a prevenire e a reagire. «Dire l’indicibile è il ruolo della letteratura», scrive Aleksievic. L’indicibile è alle nostre porte, sta sempre in agguato, pronto ad agguantarci, anche nel nostro mondo all’apparenza tranquillo. In ogni caso sono dietro l’angolo, poco distanti. L’indicibile si rafforza nel buio dei pregiudizi e delle divisioni o nella pigrizia del sentirsi immuni. Il buonsenso ci consiglia invece di stare sempre attenti, di non divenire come sonnambuli, afferrati solo dall’attimo presente. Non è una questione di generazioni o di epoche diverse: è sempre accaduto così. Si tratta piuttosto di avere un cuore e un’intelligenza che vedono oltre sé. Ogni segnale d’allarme deve essere sempre udito perché non accada la tragedia. Di ogni avvertimento occorre far tesoro per reagire presto. I piccoli di ogni tempo e di ogni terra lo confermano. La guerra è ancora tra di noi: attenersi a tale semplice verità significa avere coscienza critica, saper distinguere il bene dal male (cosa sempre difficile per spiriti sonnolenti), se possibile guardare alla realtà con profondità. Per noi italiani significa applicare, con pragmatica e saggia lucidità, l’articolo 11 della Costituzione. Per queste ragioni le parole di quei bambini russi e bielorussi ci servono e ci colpiscono: nella loro apparente e indifesa ingenuità, sono come dei macigni per gli adulti di ieri e di oggi. I bambini hanno sempre la capacità di sorprendersi, quella che gli adulti perdono se non l’hanno coltivata in sé. Lo sguardo, la testimonianza, la coscienza dei bambini non vale di meno. Il loro unico obiettivo è la salvezza, nient’altro. «Bisogna cercare la salvezza. La salvezza è possibile, fino all’ultimissimo frangente della nostra vita», dice Svetlana Aleksievic. Da questo occorre sempre ripartire.