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Giro: «Tra l`Europa e l`Africa «futuro» è la parola chiave» (Avvenire)

Immaginate quasi 90 delegazioni degli Stati e delle istituzioni europee e africane, in un’unica grande sala, decorata con motivi astratti anni Settanta, lo stile di Abidjan quando divenne grande. Tutti si abbracciano, si chiamano per nome. Questo è il clima dell’Eurafrica: caloroso, che esprime vicinanza. Ma non tutto va bene tra i due continenti fratelli. Innanzi tutto c’è un passato che non passa, quello della colonizzazione che è stato appena riattizzato dalle polemiche sulla vendita degli schiavi in Libia ma anche dalle polemiche europee sull’abbandono dei «sensi di colpa».

La Francia di Sarkozy ne fece addirittura una legge. Nel linguaggio politico-diplomatico ciò si esprime in certe intemerate europee sulla buona amministrazione e sulla corruzione, mentre da parte africana si reagisce ritornando sempre al passato, con una certa manipolazione del tema nei confronti della propria gente. Non è un caso che alla domanda della ragazza che mescolava neocolonialismo e mancanza di servizi nell’università di Ouagadougou, il presidente Macron non abbia avuto timore di dire: «Questo non è compito mio, chiedilo al tuo presidente». Ma è difficile sfuggire all’immaginario comune. La storia pesa e non c’è stata purificazione della memoria. Il tema del destino dell’uomo e della donna neri, nascosti dietro «la linea del colore», come diceva Web Du Bois all’inizio del secolo scorso, è fortemente simbolico e sentito. Tra l’altro ciò che avviene tra la polizia Usa e gli afroamericani non aiuta… Infatti a dividere i due partner c’è la questione migrazioni che tanto si collega con la convivenza tra africani ed europei. Molti giovani africani si sentono in diritto di andare in Europa dopo che quest’ultima è venuta a casa loro. Sulle migrazioni la coscienza dei due continenti si divide: emergenza umanitaria o securitaria per l’Europa, diviene un’opportunità per la leadership africana. Infatti le rimesse dei migranti rappresentano più del doppio dell’aiuto pubblico allo sviluppo.

Per questo gli africani non accettano i rimpatri forzati: economicamente non convengono e diventano un’umiliazione davanti alla propria opinione pubblica, già scandalizzata dalle immagini di schiavismo e sofferenza. Tra Europa e Africa c’è quella consuetudine fatta anche di tanti “non detti” e di molti silenzi. Qualunque argomento si trasforma passando attraverso la griglia di sentimenti e emozioni reciproci dovuti al colonialismo e alla decolonizzazione (uno choc non minore della prima). Se da una parte si dice «questione demografia», dall’altra parte si ascolta «tratta»; «corruzione» si trasforma in «sfruttamento»; «diritti umani» in «difesa delle nostre culture» e così via. A torto o a ragione, gli africani non sopportano che, dopo averli colonizzati, l’Europa oggi pretenda di spiegare loro come si fa a decolonizzarsi… Allo stesso modo non accettano facilmente le critiche europee contro i cinesi, che tra di loro pure condividono. Tutti affermano di voler una relazione tra pari tra i continenti ma sanno che ancora non ci siamo.

Ci vuole quindi un nuovo linguaggio comune, fatto di verità ma soprattutto di futuro. Tenere conto della storia è sempre giusto, basta che non diventi un macigno che schiaccia. In entrambi i continenti le giovani generazioni sono diverse dai loro padri e possono essere libere dalle costrizioni mentali del passato. Su questo è bene costruire.

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