Il Piano Mattei non esiste senza un robusto aiuto internazionale, e senza il cappello dell’Onu. Semplicemente perché l’Italia non ha i soldi per implementare il grande disegno di rinascita dell’Africa a cui, dal primo giorno a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha affidato le speranze di fermare l’epocale flusso di migranti provenienti dal Mediterraneo. Questa è in estrema sintesi la conclusione a cui è giunto il governo prima dell’arrivo di Meloni a New York, dove sbarcherà questa sera, per il suo debutto da presidente del Consiglio all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Prima di lei è arrivato Antonio Tajani. Il vicepremier e ministro degli Esteri si è coordinato con la premier sulla strategia da adottare. «Il tema dell’immigrazione non può essere risolto solo dall’Europa» dice alla Stampa da New York. Meloni farà il suo ingresso al Palazzo di Vetro tra la 44th Street e 1st Avenue con la proposta a cui ha lavorato Tajani. Un paper che contiene le linee di azione di un piano per l’Africa, con l’idea di rendere il più concreto possibile un programma multilaterale di intervento nel continente lacerato dalla crisi alimentare e dai colpi di Stato che hanno colpito la striscia del Sahel.
Meloni ne parlerà con il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che vedrà mercoledì pomeriggio, prima dell’intervento all’Assemblea previsto per la sera. La premier si è convinta che l’Unione europea non basti e che vada creata una piattaforma politica in sede Onu. A Guterres illustrerà un quadro che si è fatto drammatico e che rende necessaria la collaborazione di più attori. Servono soldi, progetti, finanziamenti. «Serve un maggiore coinvolgimento dell’Onu» ha ammesso ieri la premier da Lampedusa. Una missione. Anzi, di più: «Un piano Marshall per l’Africa» lo definiscono alla Farnesina. Solo così, è la convinzione della diplomazia italiana, si potrà dare sostanza al Piano Mattei, che in fondo non è mai stato chiaro cosa fosse, al di là di una generica definizione degli obiettivi.
Tajanj spiega come si possa facilmente puntare sulle capacità dell’Onu, articolate «attraverso le varie agenzie che sono già una garanzia per la gestione di questi fenomeni». Innanzitutto quelle che si occupano della sicurezza alimentare, che hanno sede a Roma: Fao, Ifad e World Food Program. Ma il governo spera che partecipino al piano anche Oim e Unhcr, le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite dedicate alle migrazioni. Secondo la leader italiana la loro collaborazione sarebbe preziosa «per la realizzazione di hotspot nei Paesi di transito e di origine», punti di raccolta da dove gestire le richieste d’asilo e supportare i rimpatri. Questo è il capitolo più complesso, ammettono dalla Farnesina. Innanzitutto perché i Paesi devono accettare la costruzione dei campi, e poi perché c’è bisogno di molti soldi. C’è un dialogo aperto con l’Egitto, ma paradossalmente il più facile da convincere potrebbe essere Kais Saied, il riluttante autocrate che regna sulla Tunisia, il vero pozzo nero dove stanno precipitando le speranze italiane di fermare i flussi. Ormai Tajani sembra riporre poche speranze sul via libera in breve tempo dei circa 2 miliardi del Fondo monetario internazionale. «Si deve pensare a un accordo svincolato da quello tra Tunisi e Fmi». Saied non vuole saperne delle riforme richieste (a partire dai tagli del mostruoso apparato pubblico di Tunisi) e il Fondo non ci sta a mettere soldi in un vaso bucato. Per questo, Meloni ha scommesso tutto sulla Ue e sull’aiuto di Ursula von der Leyen. Mentre i sauditi hanno staccato già un assegno da 500 milioni di dollari per Tunisi, Saied ancora attende i 250 milioni di euro promessi da Bruxelles. Soldi che, pensa Meloni, servirebbero a placarlo e a convincerlo a trattare sulle riforme.
La razionalizzazione delle risorse è l’altro grande obiettivo che si pone la premier a NewYork. Stando al piano italiano, l’Onu potrà incaricarsi della regia dei finanziamenti di altri partner interessati all’area e con cui il governo di Roma gioca di sponda, come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar. Una scelta che ha inevitabili ragioni e conseguenze geopolitiche. E questa sarà parte del ragionamento che farà Meloni a Guterres. L’Africa fa gola ai cinesi. Pechino ha una capacità economica enorme ed è uno spettatore interessato della destabilizzazione che il disastro africano può provocare in Europa. Poi c’è Vladimir Putin, che potrebbe muovere altre truppe di mercenari appena il fronte ucraino necessiterà di meno attenzione.
Di fatto, Meloni ripartirà dalle conclusioni del vertice sulle migrazioni del 23 luglio. La proposta di un piano Onu nasce anche in vista della Conferenza Italia Africa che si terrà a Roma, a inizio novembre, allargato ai finanziatori della penisola araba. La premier vuole arrivarci con qualcosa di più concreto. E dopo giorni di sfida con Matteo Salvini, intenzionato a giocarsi la campagna elettorale sulla rotta del Mediterraneo, ha capito che non può abbandonare la via diplomatica. Tajani pensa che la premier non debba seguire gli umori del leghista. Non farsi trascinare su ipotesi irrealizzabili come il blocco navale o nella disfida per contendersi il voto più populista di destra. «Va bene il contenimento ma serve una strategia diplomatica. Si può aprire al modello di una missione Sofia ma senza dimenticare le altre azioni di intervento. Come sulla Tunisia». Ma Salvini sbaglia ad attaccare l’Ue con Marine Le Pen a Pontiac, e Meloni a seguirlo? In altre parole, la premier dovrebbe seguire Tajani? «Su Le Pen tutti sanno come la penso. Ognuno invita chi vuole a casa propria, e ognuno ha le sue idee e le sue strategie. Vedo però che Meloni a Lampedusa ha parlato di Onu e di Europa. Ha le idee chiare e con me parla perché sono ministro degli Esteri».