(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)
Ringrazio molto gli organizzatori di questo convegno per avermi dato l’occasione di affrontare un tema come quello dell’Europa federale. Sapete che è un punto di riferimento del mio percorso politico. Sono profondamente convinta che condensi, alla vigilia delle prossime elezioni parlamentari europee e della nostra presidenza di turno dell’Unione, una visione del processo di integrazione continentale difficile da differire ancora.
E’ arduo negare che l’approccio funzionale, basato su una costruzione per gradi dell’edificio europeo e centrato sull’integrazione dei mercati, abbia mostrato in tutta evidenza i suoi limiti dopo la crisi finanziaria del 2008. La fase di profondo smarrimento per tutti i cittadini del continente che questa ha innescato ha coinciso con un picco di sfiducia verso le istituzioni dell’Unione, che sarebbe però limitativo ricondurre solo agli effetti della crisi. Si può essere d’accordo o meno nel riconoscere i limiti intrinseci di questo approccio. E’ però difficilmente contestabile che, in un’Europa dove nazionalismi e movimenti demagogici hanno ripreso un vigore senza precedenti, la sua funzione storica si è ormai esaurita.
Il programma di questo Convegno ricorda giustamente le parole di Altiero Spinelli quando, nel momento più difficile della seconda guerra mondiale, ebbe la forza e la lungimiranza di immaginare “un’Europa libera e unita”.
Nel richiamare quelle parole non vorrei cadere nella trappola di ricordare un autore citato spesso, ma non abbastanza letto. Il suo pensiero federalista, mirabilmente condensato nel Manifesto di Ventotene, è di grande attualità non solo per la capacità di anticipare una visione che ha costruito le basi dell’edificio comunitario, mettendo fine ad attriti secolari che avevano dilaniato il continente. Ma, e soprattutto, per l’intuizione di mettere al centro di questa visione un’idea politicamente forte – e pienamente democratica! – di Europa. Il suo messaggio mi sembra essere oggi di straordinaria attualità, e forse più attuale oggi di allora, nel rappresentare con rara lucidità il legame inscindibile tra maggiore integrazione e maggiore legittimità democratica.
E’ quasi paradossale che, a un secolo dall’assassinio di Sarajevo e dallo scoppio di una guerra che dimostrò a carissimo prezzo la sterile distruttività dei nazionalismi, l’Europa si avvicini ad una scadenza come quella del voto parlamentare del 2014 con tante incertezze e così poca fiducia nel proprio futuro. L’evidente asimmetria di una crisi economica che colpisce duramente certi Stati membri ed esalta il successo di altri, non aiuta certo ad instaurare un clima di condivisione.
Ma è proprio dalla natura di questa crisi che credo venga un segnale chiaro sul cammino da percorrere. La crisi europea non è cominciata con la tempesta finanziaria del 2008. Era chiaramente delineata già negli anni precedenti. Il tormentato cammino verso la costituzione europea, tra timori spesso irrazionali e scarsa fiducia verso una cornice istituzionale oggettivamente macchinosa, ha prodotto un clima di scetticismo su cui gli effetti della diffusa recessione hanno attecchito facilmente.
L’idea dei padri fondatori dell’integrazione europea era un’idea profondamente e altamente politica. La sua realizzazione ha comportato una lunga mediazione con gli interessi nazionali e questa logica del minimo comune denominatore ha potuto funzionare nella prima fase del processo di integrazione. Il livello raggiunto non permette però ulteriori esitazioni. Lo aveva ben intuito, sia pure con evidenti finalità nazionali, Margaret Thatcher quando, nel lontano 1990, definì l’unione monetaria “the backdoor to a federal Europe”. Eppure questa intuizione sembra sfuggire a molte forze politiche, che tendono ad avvicinarsi alla scadenza elettorale del 2014 con una prudenza di circostanza, drammaticamente inadatta all’ondata demagogica che avanza.
E’ singolare, ma fino a un certo punto, che mentre l’Europa appare così divisa ed incerta, dal resto del mondo venga una domanda di Europa senza precedenti. Non sono solo gli stessi Stati Uniti ad alimentarla, in una linea in fondo di continuità rispetto a un processo che ha largamente contribuito al consolidamento delle relazioni transatlantiche. Sono le stesse potenze emergenti a farlo, nella consapevolezza che un’Europa solida ed autorevole in un conteso multipolare così incerto, sia un beneficio sicuro per tutta la comunità internazionale.
Non è un caso che anche negli ambienti dell’analisi geopolitica questa consapevolezza si stia consolidando in modo evidente: degli osservatori attenti e autorevoli come Mark Leonard e Parag Khanna hanno ipotizzato un “G3 world” come la formula più adatta a descrivere e guidare un mondo multipolare. Un G3 dove proprio l’Europa è il terzo lato di un triangolo i cui altri due lati sarebbero USA e Cina.
In un momento così cruciale, rilanciare la visione federale è una scelta di fondo e non di mero metodo. Il Manifesto di Spinelli indica un processo politico nel senso più pieno del termine: non chiama in causa insidiose argomentazioni culturali e identitarie, che non poco hanno contribuito a raffreddare l’entusiasmo verso il progetto costituzionale europeo, ma vede l’Europa federale come progetto politico condiviso. L’idea degli Stati Uniti d’Europa era e rimane il traguardo di questo percorso, attraverso una versione aggiornata e sostenibile dell’opzione federalista che ho spesso avuto occasione di richiamare, ormai da diversi anni.
Il modello del “federalismo leggero” è intrinsecamente compatibile con la sussidiarietà – anzi la presuppone – e risponde perfettamente ai timori verso la nascita di un “superstato” continentale, una sorta di amplificazione della già poco apprezzata struttura burocratica dell’Unione, che tanto credito ha fatto guadagnare ai movimenti euroscettici.
E’ un modello che darebbe un’ossatura politica e democratica solida all’Europa: una federazione che limiterebbe le sue competenze a pochi ma cruciali settori oltre a quelli già comunitarizzati, come la politica estera e di difesa, la politica infrastrutturale e quella della ricerca e dell’innovazione, con un circoscritto ma significativo ed efficiente bilancio federale per gestirle. Razionalizzerebbe le risorse comuni, arrestando la crescente irrilevanza internazionale cui i singoli stati membri altrimenti non sfuggirebbero. Restituirebbe opportunità, prospettive di crescita e autorevolezza all’Europa verso il resto del mondo.
In tale prospettiva, i mesi che ci separano dal rinnovo del Parlamento Europeo devono essere sfruttati come un’opportunità per promuovere un grande dibattito democratico sul futuro dell’Unione, nell’ambito di una campagna elettorale giocata su temi autenticamente europei che non sia la semplice sommatoria di 28 campagne elettorali nazionali
L’occasione che si presenta all’Italia nel 2014 con l’esercizio della presidenza di turno è irripetibile. Conteremo – se tutto va bene… – su un governo che ha mostrato una rara chiarezza di intenti circa la centralità del processo di integrazione europea. L’auspicio è che il 2014, con l’apertura del nuovo ciclo legislativo-istituzionale, possa rappresentare il punto di svolta dopo una fase di crisi verso una fase di rilancio dell’Unione. Così come fu l’anno 1984 grazie al “Progetto Spinelli” che questa mattina Pier Virgilio Dastoli ha magistralmente ricostruito.
Affronteremo questa sfida con tutta la determinazione che il Presidente del Consiglio ha ben sintetizzato, quando ha affermato che “pensare l’Italia senza l’Europa è il vero limite della nostra sovranità”. E anche consapevoli che, parafrasando le sue parole, pensare all’Europa senza farla è il maggior limite al suo futuro.