
La rappresentanza italiana a Praga è ospitata nelle antiche dimore nobiliari del cinquecentesco Palazzo Slavata, affacciato sulla via Thunovska, e del settecentesco Palazzo Thun – Hohenstejn, che apre sulla via Nerudova, in direzione del Castello. La sede diplomatica costituisce oggi il punto d’incontro tra la nazione italiana e quella ceca non soltanto per l’ubicazione in prossimità della “via italiana”, la Vlasska, ove si affaccia l’Istituto di Cultura, ma anche per le relazioni culturali e storiche con la città boema, che, tra ‘700 e ‘800, negli interni del Palazzo ebbe un suo riferimento sociale importante, e, infine, per la rivoluzione artistica operata nel giro degli stessi anni da numerosi esponenti, architetti scultori e pittori, giunti dall’ Italia e partecipi della ricostruzione imperiale della città boema ed anche del Palazzo.
Ancora oggi, le strette relazioni tra i due paesi trovano un contesto particolarmente favorevole grazie anche all’elegante ed illustre cornice decorativa delle sale e degli arredi della collezione che si avvale in egual misura di nobili pezzi d’arte boema e viennese e di capolavori di pittura provenienti da musei statali italiani.
Nel 1589 la casa degli Hradec, primi proprietari della dimora, viene in gran parte distrutta da un incendio, ad eccezione della zona centrale del Palazzo, ove si è conservato lo stemma nobiliare, esistente ancora oggi, e della decorazione degli interni con i suoi arredi. Pochi anni dopo, la figlia di Adam Hradec, per il suo matrimonio con Vilem Slavata, porta in dote, insieme ad una cospicua ricchezza, anche l’edificio che da questo momento acquisisce il nome del nuovo proprietario.
Con l’ascesa politica di questi come vicerè e con la fortuna scaturita anche dai saccheggi perpetrati dalle truppe imperiali nelle case patrizie della città per la vittoria dell’esercito boemo del novembre 1620, la famiglia degli Slavata accresce il suo già considerevole patrimonio. In virtù della nuova posizione sociale, nel 1672, si decidono lavori di ristrutturazione del Palazzo rinascimentale della II metà del sec. XVI e della facciata, che si legano, in particolare, al nome di Jan Jachim, ultimo erede della casata. L’edificio – con graffiti in facciata a motivi vegetali e animali, poi andati distrutti – era stato iniziato nel 1562 con la direzione dell’italiano “Maestro Antonio”, attivo in altri cantieri in Boemia.
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Questi ordina la costruzione di un nuovo prospetto alle spalle di quello già esistente affidandone la realizzazione all’architetto Domenico Orsi, su progetto di Francesco Caratti. A quest’epoca risale l’alta torre a forma di prisma e la decorazione a stucco della parte centrale del Palazzo che vede all’opera vari artisti italiani, Cavallini, Cometa e Passarini, conclusasi intorno al 1564. Ad un momento successivo (1586-89) risalgono altri interventi architettonici stavolta sotto la guida di un architetto boemo, il costruttore Oldrich Aostalis, di origine ticinese. Della fase rinascimentale restano testimonianze nel cortile del corpo meridionale del Palazzo. In un’ epoca non lontana (1669-1693), il Palazzo ormai di proprietà degli Slavata, riceve ulteriori interventi architettonici, come la costruzione di un passaggio volante tra il primo piano e le scale del Castello e le scuderie, che danno l’aspetto, ancor oggi distinguibile, di un unico corpo edilizio a tre blocchi, parallelo alle scale del Castello e sormontato da sette frontoni, tipici elementi architettonici del Rinascimento boemo. Con la finalità di una ancor maggiore visibilità verso la Nerudova, a quest’epoca vengono acquistate e subito demolite sei limitrofe case borghesi cinquecentesche. Alcuni anni dopo (1689), Jachym Slavata decide la costruzione di un nuovo palazzo che non riesce però a realizzare per la morte improvvisa. Anche i suoi familiari, tra cui il fratello Frantisek Leopold, a seguito di ulteriori vicende di lutti e passaggi ereditari, non riescono a completare il cantiere rimasto abbandonato, giunto in eredità nel 1701 al Conte di Kolovrat, Norbert Leopold Libstejn, avendolo avuto in dote dalla sua sposa Maria Magdalena Slavata. Solo suo figlio Norbert Vincenc, a seguito della vendita di alcuni terreni, è in grado di sostenere le spese di ricostruzione, nel 1716, riprendendo il progetto del suo avo e portando a termine i lavori che vengono eseguiti tra il 1721 e il 1726, con un progetto di Giovanni Santini Aichel (1677-1723), architetto di origine italiana ma nativo di Praga e di formazione viennese che si era avvalso per la realizzazione del tessuto edilizio sulla Nerudova di altri artisti italiani. A quest’epoca risale l’aggiunta, all’edificio già esistente, di una costruzione a due piani con tre ali di cui una collegata all’ala barocca più antica di palazzo Thun che ospitava la prima facciata. Il nuovo prospetto ha il suo fulcro nel portale d’ingresso ove le due aquile che sormontano il portone, simbolo araldico dei Kolovrat, evocano la potenza della famiglia suggellata dalla mitica presenza delle due divinità a governo dell’Olimpo, Giove e Giunone, opere scultoree eseguite intorno al 1730 dall’artista boemo Mathyas Bernard Braun (1684-1738). Gli interni, in origine, erano decorati a stucchi ma in parte poi andarono distrutti o rimaneggiati nel rifacimento ottocentesco della dimora. La cifra stilistica dell’architetto Santini è riconoscibile nelle finestre ovali sopra gli ingressi laterali, di riminiscenza viennese, come in altri motivi decorativi ispirati dall’architetto Fischer von Erlach e dal Palazzo Batthany – Schoenborn di Vienna. Dal monumentale ingresso si accede all’elegante vestibolo a tre ampie navate, diviso da colonne, frutto della felice combinazione di motivi dell’architettura viennese e di quella italiana. Nel 1768, una discendente della famiglia,diventata la nuova proprietaria, porta il palazzo in dote al marito, il Conte Vaclav Thun di Hohenstejn, cameriere regio imperiale. I due Palazzi – Palazzo Kolovrat e Palazzo Thun – riuniti in un’unica proprietà, avranno per due secoli analoga vicenda fino ad essere venduti allo Stato italiano il 5 febbraio 1924. Durante l’Ottocento e soprattutto alla metà di questo secolo, l’edificio di cui era rimasto disadorno il grandioso scalone d’ingresso, diventa il centro culturale della vita di Praga con feste e ritrovi ospitati nel Salone principale, ricominciando a vivere dopo un periodo di abbandono. Dopo alcuni interventi eseguiti tra il 1828 e il 1852, il Palazzo alcuni anni più tardi (1869-1875), il Palazzo viene ricostruito e sistemato con diverse opere architettoniche nelle sale, secondo il progetto dell’architetto Josef Zitek (1832-1909), artefice delle creazioni del Teatro nazionale e del Rudolfinum di Praga. Le modifiche più significative riguardano lo scalone d’onore che viene totalmente rinnovato e rivestito di pitture (1871) con scene a due livelli: un fregio allegorico nella parte bassa e personificazioni di Virtù nella parte alta, mentre, tra le arcate balconate, vengono dipinte scene legate tutte all’esaltazione della vita del nobile Bedrich Thun e della casata d’appartenenza, questi consigliere segreto dell’Ambasciatore a Pietroburgo e, alcuni anni prima (1867), deputato all’assemblea regionale per il latifondo. Nello stesso anno il Palazzo diventa sede delle riunioni del partito della nobiltà e dei latifondisti. Alla decorazione a fresco partecipano, sotto la guida di Josef Trenkwald, Direttore dell’Accademia di Belle Arti, Tulka il più famoso ed originale, ed altri artisti boemi, come Schwewl, Levy, Zenisek, Krispin, Knochl, Mukarovsky che danno vita all’impresa collettiva della fine del sec. XIX (ultimo trentennio) che anticipa quella, di poco successiva, del Teatro nazionale. Con l’acquisto del palazzo da parte dello Stato italiano (1924) vengono effettuati alcuni lavori che rispecchiano il nuovo clima della Secessione e dell’incipiente gusto decò (1926): a questa fase è riferibile la creazione di una scala secondaria e l’inserimento dell’ascensore ma soprattutto il rifacimento delle antiche decorazioni a stucco delle pareti e dei soffitti. A questa stessa data risale anche l’arredo delle Sale che vengono impreziosite, in aggiunta ai mobili già esistenti nella residenza boema, da preziose opere d’arte che giungono dai principali musei italiani, come le residenze reali del Piemonte e Palazzo Pitti di Firenze. Dall’atmosfera di inizio secolo dello scalone monumentale d’ingresso, si transita nella Sala d’ingresso, arredata da mobili antichi come le due consolles, di cui una di origine italiana, in legno magistralmente intagliato e dorato, diverse nei raffinati intagli di figure e motivi vegetali vari di stile rococò più o meno avanzato (seconda metà sec. XVIII (inv. MAE 108, 320, 332), e due specchiere in legno scuro con lo stemma sabaudo (invv. MAE 73-74) – oltre a due interessanti Scene di vita quotidiana di Francesco Londonio (invv. MAE 128-129). La luce che filtra dalla Nerudova accompagna il visitatore nelle vicine fastose Sala d’ingresso e Sala degli specchi, in origine a doppio livello, decorata quest’ultima sontuosamente da stucchi dorati e illuminata da un pregevole lampadario di Boemia, arredata da sontuosi tavoli parietali neobarocchi, con allegorie femminili di Virtù e putti in volo, vicini ai tavoli della Collezione Rezzonico di Venezia, e da una suite di divano e poltrone, in stile neoclassico (fine sec. XVIII-inizi sec. XIX), proveneiente dal Castello Reale di Moncalieri. Anche le due Sale successive hanno conservato la decorazione originaria, che, con l’affaccio sulla Nerudova, contribuisce a ricreare l’atmosfera settecentesca, nonostante i successivi restauri dei secc. XIX e XX (secondo quarto). Qui sono ospitati alcuni eleganti mobili provenienti dal Castello di Moncalieri, come attestano gli stessi cartellini d’inventario rilevati nell’ultima campagna di ricognizione. Dalla Reale Fabbrica di Stupinigi proviene la bella suite di salotto e poltrone ospitata nella vicina Sala rossa detta anche della Leopoldina, dal nome della nobildonna Leopoldina Thun – Czapski che vi dimorò nella seconda metà del sec. XIX. In essa si respira un’atmosfera d’altra epoca, piacevolmente ritratta in un acquerello (1885) di Juzà Thunova, nel quale si riconosce uno dei due cassoni nunziali, oggi trasferiti nel salone d’ingresso (invv. MAE 69-70), mentre due cassapanche, rari esemplari di lavori artigianali austriaci o cechi, riferibili al sec. XVII, sono nello Studio dell’Ambasciatore (invv. MAE 23-146). Qui è esposta una copia di bella fattura della Notte di Correggio (inv. MAE 208, Barberini 1269), esemplare d’epoca, di notevole qualità, recentemente restaurato (cfr. L’opera a restauro, 197). Dai piani superiori, la vista dalle finestre spazia sulla verde collina di Petrin. Qui erano le stanze dei familiari ed oggi, nei vicini Salotto azzurro, ritratto anch’esso da un altro acquarello, Salotto blu e verde, trovano ospitalità diversi dipinti italiani dei secc. XVIII e XIX, in prestito temporaneo dal Castello di Moncalieri, principalmente, mentre il mobilio è costituito da pregevoli esemplari di ebanisteria italiana, come il bureau nella residenza dell’Ambasciatore a ribalta con specchi incisi e superficie finemente impiallicciata in noce e decorata da intarsi che ricorda i cassettoni a ribalta dell’Italia settentrionale, di Venezia, Milano o Bologna, mentre alcuni pezzi d’epoca più recente, come quelli in stile “Biedermeier”, sembrano documentare la vita sociale del Palazzo agli inizi delsecolo scorso.