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Amendola: “Erbil, il fronte del conflitto iracheno” (l’Unità)

Ashti è un campo d’accoglienza che ospita oltre 5mila persone, quasi tutte cristiane. Provengono da Karakosh, centro occupato dai jihadisti durante l’avanzata del Califfato due anni fa. Profughi sistemati in uno dei 30 campi della regione curda in un territorio in prima linea nella lotta a Daesh, che ha vissuto da vicino la ferocia dei terroristi.

Ad accoglierci troviamo le insegne delle Ong italiane – tra cui Focsiv e Un Ponte per..- che hanno realizzato, con il contributo della Cooperazione del Ministero degli Esteri, strutture ricreative e scuole per i tanti bambini del campo.

“Nella nostra Regione ci sono più di un milione e mezzo di profughi. Noi dobbiamo combattere e insieme offrire ospitalità con risorse risicate” mi racconta il Primo ministro del Governo Regionale Curdo, Nechirvan Barzani.

Infatti i dati che più impressionano riguardano gli sfollati, di chi ha cercato di mettersi in salvo abbandonando tutto: 4 milioni di iracheni hanno lasciato le loro case, di cui 3,3 dal 2014, ossia da quando Daesh ha dispiegato il suo terrore verso Baghdad lungo la linea del fiume Tigri.

Importanti vittorie

II nord del Paese è una zona di guerra, combattuta quotidianamente dai 40mila volontari peshmerga e dalle forze locali con il supporto della Coalizione internazionale; al fronte – lungo mille chilometri – hanno ottenuto importanti vittorie contro le bande di al Baghdadi: dal blocco della via di collegamento usata per trasportare armi e petrolio, la famosa Highway 47, alla liberazione di intere aree, come quella del Monte Sinjar.

Ma le vittorie su Daesh, nel contempo, hanno riaperto il delicato capitolo sul futuro dei territori liberati, sulle prospettive di convivenza pacifica tra i vari gruppi etnico-religiosi iracheni, e sulle crescenti difficoltà nelle relazioni istituzionali con il Governo centrale di Baghdad. I rapporti tra la capitale ed Erbil sono tesi vista la crisi economica e una distribuzione delle risorse interne contestata dalla parte curda. Il basso prezzo del petrolio ha fatto saltare i bilanci, ed inoltre i costi della guerra (e dei profughi) rendono lo scenario ancora più complicato. In questo quadro, qualcuno oggi non fa mistero di guardare ad una prossima indipendenza dall’Iraq.

“Adesso il nemico è Daesh” ripetono all’unisono i ministri del Governo Regionale, ma anche il coordinamento in battaglia è complesso tra le forze dell’esercito iracheno da poco riorganizzato, peshmerga curdi e le numerose milizie paramilitari sciite Hashd Sha’bi.

A metà strada

Tensioni che aumenteranno anche in vista della prossima campagna di liberazione di Mosul. Solo 85 km separano la città da Erbil, e il fronte di combattimento è a metà strada. Per questo il contingente internazionale lavora notte e giorno per assistere le forze locali. La missione italiana “Prima Parthica” a Erbil è, assieme ad altri sei Paesi della Coalizione, posizionata da tempo con compiti specifici: l’addestramento dei peshmerga, un’operazione di salvataggio per i feriti al fronte, la gestione e la preparazione per l’emergenza alla diga di Mosul.

La seconda città dell’Iraq è uno snodo fondamentale per i destini della guerra contro i terroristi, sia per la sua posizione geografica, sia perché Mosul è la vera capitale dell’autoproclamato Califfato, e anche per la presenza nelle vicinanze della diga: la più grande in Iraq e la quarta in tutto il Medio Oriente.

La diga

La diga non solo fornisce acqua per l’agricoltura e produce energia per quasi 2 milioni di abitanti, ma il rischio di un suo crollo metterebbe in pericolo intere comunità lungo la Valle del Tigri.

Per evitare una catastrofe, il Governo iracheno ha deciso di avviare un’opera di ripristino e manutenzione, affidando lo scorso marzo ad una società italiana i lavori di messa in sicurezza dello sbarramento lungo 3 km e alto 131 metri. Un’emergenza civile, che gli iracheni e la Coalizione chiedono di risolvere quanto prima.

“Senza l’apporto dei peshmerga non si libera Mosul”, mi dice
senza esitazione il Presidente della Regione e leader storico Masoud Barzani. “Ricordatevi che il primo scontro tra noi e Daesh fu il 18 agosto 2014, poche settimane dopo la proclamazione del Califfato di al Baghdadi nella moschea di Mosul. E quella battaglia fu proprio alla diga, che liberammo” conclude con orgoglio Barzani.

Mosul è un puzzle etnico composto da curdi, arabi sunniti e sciiti, turcomanni e altre minoranze. È un mondo rappresentativo di quello che è storicamente la diversità e la ricchezza civile mediorientale. Tutto ciò che l’idea totalitaria di Daesh vorrebbe ricondurre ad unità con la violenza, con l’eliminazione delle differenze utilizzando la frustrazione dei sunniti oramai minoranza in Iraq.

Passato, presente e futuro

Non a caso la presenza internazionale sotto egida Onu è tanto decisiva quanto delicata a Baghdad come a Erbil, con uno sguardo vigile sulle mosse dei Paesi confinanti. Con una battuta descrivono ad Erbil un’amara verità: “In Iraq, gli sciiti hanno paura del passato, i sunniti del futuro, e noi curdi del passato, del presente e del futuro…”

In definitiva, la liberazione dal terrore di Daesh e dalla sua propaganda, richiede anche una riconciliazione necessaria in questa parte di mondo, per evitare che il settarismo etnico o religioso diventi la scusante per altre violenze e nuove sopraffazioni.

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