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Giro: I «colpi» non servono alla diplomazia italiana (Corriere della Sera)

Caro direttore, l’esortazione di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del primo agosto pone una domanda chiara: come si posiziona oggi l’Italia nel mondo multipolare, confuso e dove tutte le alleanze paiono saltare? Come non restare soli? Inizio con un «bemolle», come dicono i francesi: l’impressione di alleanze volubili e instabili è spesso una percezione. Ci sono agitazioni di superficie e movimenti di fondo. Certamente l’Occidente è in una fase di ridefinizione dei suoi interessi e quindi di volatilità in politica estera. La colpa è principalmente nostra: l’aver fatto saltare l’ultima opportunità di imporre regole e standard comuni con gli accordi transnazionali (Ttip, Tpp, ecc), come spiega il ministro Calenda. Da qui una grande incertezza su quali siano gli interessi nazionali e quali quelli comuni (europei, occidentali o globali). Tutti li stanno ridefinendo. Ne conseguono battaglie di retroguardia, tipo Stx. Tuttavia non dobbiamo farci prendere dalla «geopolitica delle emozioni»: i legami che congiungono l’Occidente sono troppo forti per essere spezzati. Possono esserci eccitazioni superficiali ma non si andrà oltre.

L’Italia ha dalla sua un sistema di imprese manifatturiero assai internazionalizzato (non abbastanza ma secondo solo alla Germania), una tradizione di politica estera «senza nemici» che può sembrare evanescente ma ha sempre pagato nel tempo, una società civile forte (ancorché stressata). Per contro l’Italia possiede anche tradizionali debolezze: un sistema bancario debole (dalla Banca Romana in poi); un’amministrazione che non fa sistema; un Sud sempre indietro; una dimensione delle imprese senza «campioni nazionali». La decisione che ci si impone oggi è se aumentare l’hard power (militare per esempio) come pare suggerire Galli, o puntare sul soft power politico-diplomatico. In altre parole come mettere in sicurezza il Paese in tempi incerti.

Credo che sia necessario non disgiungere i due corni della questione: la crisi libica ci porta ad esporci più di quanto avessimo previsto. La nostra frontiera si è definitivamente spostata a sud ed è proprio a sud che stiamo costruendo una «cintura di sicurezza». Accordi con i Paesi del Sahel e dell’Africa occidentale e centrale (anche militari) sono una assoluta novità per la nostra politica estera, ben accolta dai Paesi a cui ci siamo rivolti. Ciò non riguarda solo le migrazioni e pagherà nel tempo. Una cosa è evidente: si tratta di una penetrazione nuova che favorisce tutto il nostro sistema. Allo stesso modo stiamo trovando un modus vivendi con la Cina e le sue esigenze (vedi i porti), senza che ciò contraddica le nostre alleanze euro-atlantiche. In Europa la connessione con la Germania è più forte di quello che si vede e basterà un po’ di pazienza per raffreddare ardori neogollisti francesi.

Essenziale è proseguire sulla strada della cooperazione e dell’internazionalizzazione delle imprese: solo in Africa abbiamo fatto un balzo enorme e ora siamo il terzo investitore. Meglio ancora in America Latina: tutti mercati abbastanza nuovi per noi. In quelli tradizionali ci siamo rafforzati. Dobbiamo ancora fare sforzi nella politica culturale. In altre parole: abbiamo fatto delle scelte. Chiunque governerà in futuro si troverà tale eredità: la politica estera si fa con tutti gli strumenti a disposizione e con la pazienza della sedimentazione. I «colpi» servono a poco.