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«Italia Polonia, 100 anni di relazioni» Ambasciatore Aldo Amati (L’Eco di Bergamo)

L’immagine dell’Italia nel mondo e il ruolo della nostra rete diplomatica: su questi temi si svolge alla Farnesina, da oggi a venerdì, la Conferenza degli ambasciatori del nostro Paese, alla quale partecipano il presidente Mattarella, il capo del governo Conte e il ministro degli Esteri Moavero. Al summit prende parte anche il bergamasco Aldo Amati, ambasciatore in Polonia dall’ottobre scorso dopo 4 anni trascorsi nella Repubblica Ceca. Amati, laureato in Lingue all’Università di Bergamo e in Scienze politiche alla Statale di Milano, è in diplomazia dall’87. Ha prestato servizio in diverse sedi (Russia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone) e, fra un incarico e l’altro, ha lavorato alla Farnesina. addetto stampa del ministro Emma Bonino e, al Quirinale, vice consigliere diplomatico di Napolitano. Nel corso di queste missioni è stato testimone di eventi storici, dalla caduta di Gorbaciov alle Torri gemelle.

Ambasciatore, la Polonia è il più grande Paese dell’Europa centrale e, con l’Ungheria, presenta qualche aspetto problematico in termini di Stato di diritto e di rapporti con l’Ue: come sono le relazioni con l’Italia?

«Economicamente sono quanto mai articolate da anni vista la presenza in Polonia di 3.500 aziende italiane, politicamente c’è stato un salto qualitativo negli ultimi mesi con le visite dei due vice premier Salvini e Di Maio, oltre a quelle dei ministri degli Esteri e della Difesa, Moavero e Trenta. Un dato curioso: i polacchi si sentono “latini”! È un sentimento diffuso fra la popolazione, che si è stratificato nel tempo e risale a Bona Sforza e, più avanti, nel `600-`700, al “grand tour” della loro aristocrazia lungo gli itinerari della cultura italiana. C’è un legame speciale fra i due Paesi: ogni città polacca ha strade intitolate a Montecassino e al bergamasco Francesco Nullo. C’è una forte consonanza politica tra i due governi: Varsavia – che comunque ha votato per la presidente della Commissione europea, la tedesca von der Leyen – vede in Roma un alleato essenziale per riformare l’Ue. Il premier Morawiecki ripete spesso che le due economie sono complementari e vuole ripristinare il vertice intergovernativo, non più convocato dal 2013. Conta enormemente l’empatia per il nostro modo di vivere e il patrimonio culturale».

La Polonia e gli altri partner del Gruppo di Visegrad sono, pero, contrari alla ripartizione delle quote dei richiedenti asilo.

«Sì, tuttavia Varsavia ritiene di fare la propria parte, nel senso che già ospita più di un milione di ucraini. In questo periodo, fra l’altro, stanno aumentando gli ucraini dell’Est di lingua russa».

La Polonia sta conoscendo una fase di crescita.

«È un grande cantiere: 38 milioni di abitanti, uno sviluppo economico del 4%, i salari che aumentano del 10%, Varsavia piena di grattacieli. Contribuiscono alla crescita anche imprese bergamasche come Brembo, Sit-In Poland, Plati Polska, Same Deutz Polska che operano nel Sud. Un Paese che sta rapidamente cercando di raggiungere gli standard medi europei e che, per la sua vitalità, non finisce di stupire i nostri imprenditori e turisti. In Italia non sempre si ha una visione compiuta della Polonia che, dal versante politico, è divisa in due fra Est e Ovest. Il consenso al partito al governo, Diritto e Giustizia di Kaczynski, deriva dall’aver saputo interpretare le aspettative della provincia profonda».

Che immagine ha l’Italia?

«Esiste una simpatia viscerale e vi è la consapevolezza di una presenza economica massiccia: attorno alle nostre grandi imprese, s’è creato un reticolo di fornitori locali che dà lavoro a quasi 100 mila polacchi. E poi Italia è stile di vita, creatività: i polacchi di una certa età amano la nostra musica e ricordano con nostalgia il Festival di Sanremo, tutte le famiglie conoscono molto bene le nostre bellezze perché siamo fra le loro destinazioni privilegiate».

A Roma voi ambasciatori discuterete anche della vostra missione: com’è cambiata la vostra professione?

«L’ambasciatore non rappresenta soltanto il Paese ma è manager, deve gestire uomini e denaro, essere duttile, flessibile ed eclettico. Bisogna accompagnare e, se del caso, difendere gli interessi delle imprese italiane, preparare summit complessi, promuovere attività musicali di altissimo livello come può essere quella della Scala di Milano, o organizzare manifestazioni sportive come, ad esempio, sto facendo per un quadrangolare di calcio il 14 settembre nell’ambito del 100° anniversario delle relazioni diplomatiche Italia-Polonia. Si fa di tutto, con equilibrio e discrezione. L’importante è costruire relazioni, ragionare in positivo, capire la mentalità altrui in condizioni ambientali tra le più diverse, pesare le parole e ricorrere, quando occorre, al silenzio. Il salto qualitativo degli ultimi anni, anche generazionale, è la sinergia fra diplomazia, economia e aziende: un triangolo virtuoso».

I ricordi più intensi in 32 anni di carriera?

«Il volto tirato, le parole sofferte di Gorbaciov il giorno prima delle sue dimissioni, il 24 dicembre del ’91. A Mosca mi occupavo di politica interna russa e dei rapporti con i media. Ero con l’ambasciatore Ferdinando Salleo e siamo stati ricevuti al Cremlino. L’uomo della perestroika, umiliato da Eltsin, ci disse di non essere stato in grado di far partire il processo di trasformazione dell’Urss in uno Stato moderno e che in quel momento storico era la fine dell’Unione Sovietica. Poi l’11 settembre 2001. Ero uscito di casa in auto per andare al Dipartimento di Stato dove lavoravo, dopo aver visto le prime immagini delle Torri Gemelle e si avvertiva lo sgomento dalle facce della gente che guidava e ascoltava la radio. Chiedo dopo un po’ che cosa è successo. “Sono crollate le Torri”, mi risponde un automobilista. Non ci credevo, terribile».

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