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Dettaglio intervista

Le valigie sono di nuovo pronte, Staffan De Mistura è appena tornato da Kabul e si accinge a ripartire per la Conferenza internazionale di Tokyo, che si apre l’8 luglio, ultima in agenda sul futuro dell’Afghanistan, dove porterà, con tutta la determinazione di cui è capace, la posizione italiana sulla delicata fase della transizione. Tra nuove e vecchie nubi nei cieli sopra le montagne dell’Hindukush, il gioco dell’India e del Pakistan, il farsi avanti della Cina e la guerra ancora presente, a bassa intensità, si prepara il ritiro dei contingenti lsaf, compreso quello italiano, come da calendario.


Alla conferenza di Kabul, del 14 giugno scorso, il presidente afghano Hamid Karzai ha ringraziato i cinesi per i loro ingenti investimenti minerari e petroliferi nel bacino dell’Amu Darya. Qual è il gioco della Cina in Afghanistan e quale sarà dopo la partenza delle truppe Nato?


«La Cina è evidentemente interessata all’Afghanistan e rimarrà coinvolta nel Paese per questioni di sicurezza e commerciali. La frontiera cinese e quella afghana coincidono per un piccolo pezzo ma è un pezzo molto sensibile».


Per la ribellione degli uiguri e degli altri gruppi musulmani?


«Esattamente. E quindi non ha alcun interesse ad avere vicino uno Stato destabilizzato e in più ultra islamico che li appoggi. Ma sarà una presenza economico-commerciale. Vedo un gioco abile, attento a non apparire intrusivo, discreto, come ha fatto finora. Hanno capito che in Afghanistan non conviene entrare diversamente».


Infatti per gli occidentali, adesso, il problema è uscire. Il processo dl transizione va avanti. Lei pensa che il governo Karzal sarà in grado, nel 2014, di gestire la sicurezza dei Paese?


«In tutte le zone nelle quali la transizione è già avvenuta non c’è stata la guerra civile, non c’è stato il colpo di mano, non sono cadute in mano ai talebani. Da una parte perché gli stessi talebani hanno interesse a vederci partire. Dall’altra perché, con l’uscita di scena dei militari stranieri, viene a cadere la ragion d’essere della ribellione talebana, il più forte argomento a loro favore nell’opinione pubblica afghana».


Ma il territorio afghano è diviso tra tribù e vari Warlords che non sembrano affatto d’accordo tra loro. Quale soluzione vede?


«Le diverse autorità locali cominciano a fare accordi di non ingerenza reciproca, dei compromessi, mantenendo ognuno la propria zona d’influenza. É quello che succederà al momento dell’uscita delle truppe internazionali. É una soluzione impropria, imperfetta, ma è una “soluzione afghana” e quindi possibile. E in questa ottica, se ci sarà un accordo con i talebani, che anche gli Usa vogliono, anche un esercito di 300mila uomini iper armati non sarà più necessario».


Gli accordi con i talebani in Qatar, però, sembrano fermi.


«No, non è così. Si stanno portando avanti in modi diversi. Ci sono vari canali per le trattative».


Alla conferenza sull’Afghanistan a Tokyo di cosa si discuterà?


«Tokyo ha una valenza speciale perché è l’ultima grande conferenza prevista fino al 2014. Diventa quindi importante in termini conclusivi. Si parlerà dei temi dello sviluppo e dell’economia».


Karzai si aspetta 4 miliardi ranno. Cosa risponderà l’Italia?


«Ci sono due condizioni fondamentali ai finanziamenti, su cui io premerò molto: la lotta alla corruzione e il rispetto dei diritti delle donne. Vediamo la prima. Lo scandalo di Kabul Bank non è stato risolto, gli episodi di corruzione rimangono impuniti e si sentono troppe voci sugli affari della famiglia di Karzai. Questa conferenza si chiamerà: the mutual accountability, si stabiliranno obblighi reciproci, cioè, anche da parte del governo afghano. É semplice: o cambiano le cose o non daremo più un soldo. Come negli altri Paesi, gli italiani stanno facendo enormi sacrifici, non possiamo sprecare nemmeno un euro. Dopo 12 anni, in cui la comunità internazionale ha messo in questa operazione un trilione di dollari e, nel nostro caso, purtroppo, 51 morti, abbiamo tutto il diritto di pretenderlo».


Con quale cifra dovrà contribuire l’Italia?


«Stiamo valutando adesso. Per l’addestramento e il sostegno dell’esercito afghano fino all’uscita, ad ora sono 120 milioni l’anno. Ma si dovrà valutare l’entità dell’esercito realmente necessario».


E sullo sviluppo del Paese?


«Ci sarà un investimento ma va ancora valutata la cifra, che dovrà essere, secondo me, aumentata rispetto a quella per l’addestramento».


Veniamo alla seconda condizione, ai diritti calpestati delle donne. Lei, come rappresentante dell’Onu, ha già affrontato questo tema con il governo afghano, con quali reazioni?


«Quando si cerca di marcare il terreno con forza, la risposta in genere è questa: “Noi abbiamo il diritto di avere la nostra cultura e la nostra religione. E se vi immischiate vuol dire che siete qui per fare una crociata”. Ma, da parte nostra, abbiamo il diritto di negare qualsiasi finanziamento se non dimostreranno, non solo di stabilizzare, ma di migliorare la condizione delle donne».


L’Afghanistan ha firmato impegni internazionali sul diritti delle donne, come la legge contro la violenza, che non rispetta. Anzi, le ultime disposizioni di Karzai in questo campo vanno In senso contrario. Come possiamo sperare che un governo, formato in gran parte da fondamentalisti, applichi la Costituzione e le leggi che proteggono i diritti delle donne?


«Infatti sarebbe ingenuo pensarlo. Soprattutto perché alla fine dovranno fare un compromesso con i talebani e il timore delle donne afghane, che io condivido, è che sia fatto sulla loro pelle. Non ho la chiave per risolvere questo problema però so, per averlo sperimentato quando ero rappresentante dell’Onu, che condizionare gli aiuti economici è un sistema efficace. Finora non è stato usato ma adesso lo faremo. Devono capire che facciamo sul serio».


Fare pressioni sul governo non è l’unico fronte della battaglia per il rispetto del diritti. Lei ha parlato spesso di sostegno alle forze democratiche afghane. È sempre una priorità?


«Certamente. La società civile è una forza attiva e importante per la democrazia che va aiutata».


Che incontra, però, continui ostacoli. Giorni fa il governo ha messo fuori legge e indagato il partito Laico e democratico Hambastagi (Solidarietà) che ha manifestato contro i criminali di guerra tuttora al governo. Anche condannare il dissenso è una violazione di diritti.


«Lei ha ragione, lo penso anch’io. Lo ripeto: sul tema dei diritti il governo afghano dovrà cambiare strada. La società civile è il futuro dell’Afghanistan e va sostenuta ad ogni costo».

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