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Paolo Gentiloni: «La Libia non è una provincia dell’ISIS»

Il Ministro degli Affari Esteri italiano ritiene che l’istituzione di un governo di unità nazionale a Tripoli sia l’unico modo per stabilizzare il paese. 

RICHARD HEUZÉ

Da vari mesi, l’Italia svolge un’intensa attività diplomatica a fronte di un allarmante peggioramento della situazione in Libia. Paolo Gentiloni, che è succeduto a Federica Mogherini come Ministro degli Affari Esteri a ottobre 2014, ha operato senza tregua per l’avvio di un processo di stabilizzazione a Tripoli.

LE FIGARO. – La conferenza sulla Libia che ha co-presieduto con John Kerry, lo scorso 13 dicembre a Roma, e gli accordi di Skhirat (Marocco) del 16 dicembre prevedono che un governo d’unione nazionale s’installi a Tripoli il 16 gennaio. Sarà possibile?

Paolo GENTILONI. – La maggioranza dei libici sostiene questi accordi, ma sono fragili ed alcuni settori minoritari in Libia vi si oppongono.  Molti paesi lavorano affinché questi accordi siano rispettati. È certo che c’è un consenso internazionale e nessuna alternativa. Un processo è in corso. La cosa più difficile sarà ottenere che il governo in via di costituzione ottenga l’accordo dei due terzi del Parlamento libico. Il Consiglio presidenziale libico è all’opera e così l’inviato speciale dell’ONU. Solo se questo governo ottiene il necessario sostegno del Parlamento, la stabilizzazione del Paese potrà cominciare. È un passaggio fondamentale.

Cosa prevede in caso di mancato accordo?

Francamente, non vedo alternative. Ogni altra prospettiva sarebbe molto pericolosa per la Libia e per la comunità internazionale. Si può contenere in diversi modi la minaccia terroristica, ma non esistono altri mezzi per stabilizzare il Paese e per avviare la sua ricostruzione.

È possibile considerare un intervento militare occidentale in Libia contro il terrorismo in assenza di un governo a Tripoli?

Nella fase attuale, non è possibile. Sarebbe anche un errore molto grave. Europei e americani puntano tutti sulla stabilizzazione del Paese. Se occorresse, da qui a qualche mese, prendere atto con amarezza che i libici hanno rinunciato a questa prospettiva, allora certamente una coalizione internazionale anti-Daesh dovrà essere istituita come in Iraq o in Siria. Ma, ancora una volta, questo non è all’ordine del giorno, né oggi né domani. Farlo sarebbe ammettere che gli sforzi dei libici vanno incontro ad un fallimento. Se dovessimo intervenire contro il terrorismo, vorremmo farlo su richiesta di un governo libico, per sostenerlo.

All’ONU, a settembre, Matteo Renzi rivendicava per l’Italia un «ruolo guida per la stabilizzazione della Libia». Come stanno le cose?

Sul piano diplomatico, abbiamo cercato di rendere più facile la vita delle parti libiche che volevano giungere ad un accordo. Dei Paesi arabi con posizioni peraltro diverse hanno giocato un ruolo importante. Da vari mesi, l’Italia, con il concorso dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e di altri Paesi europei, come la Spagna e la Germania, ha cercato di porre le basi di una stabilizzazione della Libia. Da parte sua, l’Unione europea ha sbloccato 100 milioni di euro.

Daesh diventa di settimana in settimana più aggressivo in Libia. Come combatterlo?

Non bisogna né sottovalutarlo, né descrivere la Libia come una provincia di Daesh. L’anno scorso, il terrorismo si era concentrato a Derna. Ed è stato cacciato. Si è adesso installato a Sirte, da dove conduce incursioni molto pericolose contro le installazioni petrolifere in Cirenaica. A Zliten ha commesso un attentato di estrema gravità il 7 gennaio contro un obiettivo simbolico, una caserma di giovani reclute della Guardia Costiera.

All’indomani dell’attentato di Istanbul di martedì scorso, Federica Mogherini, capo della diplomazia europea, ha affermato che il califfato invia i suoi kamikaze dappertutto nel mondo perché è indebolito sul terreno. È anche la sua analisi?

Daesh ha certamente perso terreno, in Iraq così come in Siria. In Iraq, è stato cacciato due mesi fa da Ramadi, la sua unica conquista del 2015. Ogni città deve essere gestita senza settarismo. L’Italia vigila particolarmente affinché i poliziotti iracheni da noi addestrati rispettino la comunità sunnita. In Siria, progressi sono stati compiuti grazie agli sforzi del gruppo di sostegno internazionale, che conta 18 Paesi. Certo, le tensioni recenti tra l’Arabia Saudita e l’Iran hanno fatto temere il fallimento di questi sforzi. I nostri recenti contatti con Riad e Teheran ci fanno sperare che, malgrado le tensioni, la prima fase dei negoziati tra il regime di Assad e le forze ribelli possa avviarsi. Ne ho parlato anche con l’inviato dell’ONU, Staffan de Mistura, il quale non ha però nascosto i rischi che derivano da queste tensioni e l’estrema difficoltà di avviare dei negoziati. Alla fine del mese, il Presidente iraniano Hassan Rohani effettuerà una visita a Roma e in Vaticano, poi a Parigi, la prima dall’accordo sul nucleare. Speriamo che serva a disinnescare queste tensioni.

I negoziati sulla Siria riprenderanno dunque il 25 gennaio a Ginevra. Con Bachar el-Assad sempre al potere a Damasco. L’Italia ritiene che debba andarsene? E quando?

Indubbiamente. L’Italia ha sempre pensato che la sua partenza fosse necessaria. Ma sarebbe illusorio farne una premessa ad un cessate il fuoco tra i belligeranti in Siria. I negoziati devono iniziare adesso, anche con Assad al potere. Allo stesso tempo, bisogna far fronte alla crisi umanitaria a Madaya. È  chiaro però che Assad dovrà lasciare il potere durante i diciotto mesi della fase di transizione. Credo che la Russia possa contribuire a questi negoziati, assicurando nel contempo un cambiamento di leadership a Damasco.

L’Italia ha annunciato che invierebbe 450 militari in Iraq per proteggere i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Quando accadrà?

Questa diga è in uno stato allarmante. Una società italiana dovrebbe essere incaricata del cantiere. Ma la diga si trova in una zona critica, non lontana da Mosul, che è nelle mani di Daesh, in un settore del Kurdistan difeso dai peshmerga. La linea del fronte è soltanto a qualche chilometro. Occorrerà proteggere le squadre che lavoreranno alla diga per diversi mesi. Questo sarà il compito dei militari italiani che potrebbero essere dispiegati in primavera d’intesa con il governo di Baghdad.

Quali reazioni suscitano da voi le aggressioni del 1° gennaio a Colonia? Quali possono essere le conseguenze?

Sono incidenti vergognosi che esigono una risposta molto dura da parte delle autorità tedesche. Non c’é ombra di dubbio. Per noi, la situazione è molto chiara. I flussi migratori non sono un fenomeno effimero. Continueranno quest’anno con delle cifre paragonabili a quelle del 2015. Questi flussi non possono essere gestiti con le regole adottate un quarto di secolo fa. Senza uno sforzo organizzativo bisogna temere che con la ripresa inevitabile degli arrivi di migranti in primavera, la situazione diventi ancora più grave. 

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