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Intervento del Ministro Terzi all’inaugurazione dell’Anno Accademico Università degli Studi di Bergamo

“Stati Uniti, Unione Europea e Paesi emergenti: nuovi equilibri economici e di sicurezza”


(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)


Magnifico Rettore,
Signor Presidente della Regione,
Signor Sindaco,
Signor Presidente della Provincia,
Signor Comandante dell’Accademia della Guardia di Finanza,
Signor Presidente della Conferenza dei Rettori,
Chiarissimi Professori e cari studenti,
Signore e Signori,
sono molto lieto di essere in questa prestigiosa Università per inaugurare l’Anno Accademico 2011-2012. Ringrazio molto il Magnifico Rettore, il Professor Stefano Paleari, per il cortese invito. E sono grato al Magnifico Rettore dell’Università di Brescia, Professor Pecorelli, per la sua gradita presenza. Rivolgo poi a tutti voi un cordialissimo saluto e un affettuoso ben ritrovati!
E’ del tutto naturale parlare di politica estera in questa Università, visto il percorso di internazionalizzazione che essa ha da tempo intrapreso. L’Ateneo ha avviato tre corsi di laurea magistrale in lingua inglese e ha sottoscritto più di 150 accordi con università straniere. Alcuni di questi accordi includono scambi di docenti e studenti con università extraeuropee, tra cui quella di Dalian [pronuncia Dalien] in Cina. L’Ateneo ha anche concluso intese per il riconoscimento di studi, e ne sta definendo altre, in particolare con le università americane, per il cosiddetto “double degree”.
Signore e Signori,
il tema del mio intervento riguarda i nuovi equilibri internazionali tra attori tradizionali e potenze emergenti. Vorrei iniziare con una premessa.


“West and the Rest” – Si sta diffondendo una narrativa che rappresenta l’Occidente come un modello politico-economico in declino; a fronte invece di Paesi in costante e inarrestabile ascesa. La fine della guerra fredda avrebbe messo fine a quella logica “centro-periferia” che dall’inizio del 1800 sino al 1989-91 ha dominato il sistema internazionale. Se per due secoli il centro – inteso come Europa e America – ha prosperato rispetto alla periferia, oggi assistiamo a una riscossa di quest’ultima, con nuove potenze che emergono. Dopo il confronto Est-Ovest e quello Nord-Sud, alcuni analisti hanno sintetizzato tali dinamiche con l’espressione utilizzata da Samuel Huntington e diventata il titolo di un recente libro di successo di Niall Ferguson: “West and the Rest”.
Attenzione però. Secondo la versione ortodossa di questa interpretazione, saremmo di fronte non solo a uno spostamento del baricentro dall’Atlantico al Pacifico, sviluppo innegabile, ma anche a uno scivolamento dell’Occidente verso l’irrilevanza. Una tendenza dettata dalla notevole crescita del PIL di Cina e India; favorita dai “vantaggi comparati” che gli Stati Uniti avrebbero perduto con i costosi impegni militari in Iraq e Afghanistan; accelerata dalla crisi economico-finanziaria e resa più evidente dalle difficoltà dell’Unione Europea per rilanciare la crescita economica e dotarsi di un profilo politico coerente e unitario.
Non concordo con questa retorica del “declinismo” ineluttabile. Né accetto l’equazione secondo cui all’ascesa di nuove potenze debba necessariamente corrispondere una progressiva marginalizzazione di Stati Uniti ed Europa. Rimodellare le regole del gioco è nell’ordine delle cose: alla fine della transizione che abbiamo imboccato le configurazioni geopolitiche non saranno più le stesse. Ma se il XXI secolo sarà quello dell’Asia non è scontato che debba segnare anche il tempo di un mondo post-occidentale. Per almeno tre ragioni.
Anzitutto, come osserva Fareed Zakaria nel suo bel libro The post-American world, “non si tratta del declino dell’America, ma dell’ascesa di qualcun altro”. Nel nuovo ordine mondiale fondato su nuovi e diversi centri di potere, Zakaria considera essenziale la capacità di coinvolgere le realtà emergenti verso obiettivi condivisi. Nelle sue parole, “progresso significa compromesso”. Ma l’attitudine al dialogo senza paternalismi, al compromesso senza rinunciare ai propri valori, è insita proprio nel dna dell’Europa.
Grazie a questo approccio, l’Europa può influenzare il dibattito internazionale e contribuire alla soluzione di complesse problematiche, come quelle del cambiamento climatico e della sicurezza alimentare. E può promuovere nel mondo i diritti fondamentali, in particolare quelli delle categorie più vulnerabili, come i bambini, le donne e le minoranze religiose. Noi europei possiamo svolgere questa missione senza essere i gendarmi del mondo, ma con la portata universale della nostra civilizzazione, fondata sui principi del Rinascimento, dell’Illuminismo e di un modello di capitalismo mitigato dall’economia sociale di mercato. A dimostrazione del fatto che, come ha detto il Professor Paleari, non è in crisi l’Occidente in quanto tale, ma il suo schema di sviluppo fondato su accumulazione e arido profitto.
Una seconda ragione contraria alla logica del declino dell’occidente è data dal fatto che Stati Uniti ed Europa posseggono straordinarie risorse materiali e strategiche. Insieme rappresentano la metà del PIL mondiale, a fronte del 12% di Cina e India; e anche calcolato a parità di potere d’acquisto il PIL congiunto di Stati Uniti e Unione Europea resta il doppio (38%) di quello di Cina e India (19%). Stati Uniti ed Europa esercitano inoltre un soft power globale, mantengono la supremazia militare con circa i due terzi delle spese mondiali per la difesa, hanno un’abilità unica di innovare e conservano una grande capacità di attrarre ricerca e studenti stranieri.
Cina e India hanno fatto progressi rapidissimi nell’istruzione universitaria. In India ogni anno si laureano due milioni e mezzo di studenti: quasi il doppio degli abitanti di Milano. Ma le università americane ed europee attraggono ancora centinaia di migliaia di studenti cinesi e indiani. In Italia siamo partiti in ritardo; tuttavia negli ultimi anni, grazie anche all’azione di Università come questa e all’impulso della nostra rete diplomatico-consolare, la percentuale di studenti stranieri nelle nostre università è passata dall’1,4% del 2000 al 3,7% di quest’anno, con un forte incremento di quelli cinesi.
I Paesi emergenti vedono nell’Europa, e spesso nell’Italia, il partner di riferimento per innovazione e creatività. La forza propulsiva delle nuove idee trova l’incubatore naturale nella libertà di ricerca garantita dai nostri ordinamenti. E anche la spesa totale dei Paesi europei in ricerca e sviluppo resta circa 5 volte più alta di quella della Cina. Non sorprende quindi che in Russia si affidino alla nostra innovazione per costruire moderni aeroplani; che l’India chieda di sviluppare con noi le tecnologie dell’informazione; e che in Cina guardino alle nostre città, e alla loro capacità di conciliare esigenze produttive e qualità della vita, come modello urbano e ambientale.
C’è una terza ragione per cui il mondo occidentale continua a essere investito della leadership della governance mondiale. E’ ancora incerta infatti la capacità dei Paesi emergenti di concordare un’agenda comune e di mettere il proprio sviluppo economico al servizio di una loro maggiore influenza politica. In realtà, l’occidente avrebbe bisogno di un atto di assunzione di maggiore responsabilità da parte dei Paesi emergenti, come effetto del loro accresciuto ruolo globale. Nella comunità internazionale, come nella vita universitaria, sei chiamato a partecipare ai costi in proporzione alle tue risorse; e quando passi gli esami più difficili non puoi chiuderti nella tua stanza, ma hai un obbligo morale di condividere il tuo sapere con i più giovani desiderosi di conoscenza. Altrimenti, nell’affannosa corsa al successo, si rischia l’arida solitudine dei numeri primi.


Democrazia liberale e stato di diritto: pilastri del nuovo ordine globale – A queste tre argomentazioni vorrei aggiungerne una quarta. A prescindere dalla crescita delle potenze emergenti, l’organizzazione politica dei Paesi occidentali, fondata sulla democrazia liberale e lo stato di diritto, resta la forma di governo cardine del nuovo ordine globale. E’ un modello non perfetto, talvolta con gravi difetti come il populismo e la demagogia, ma l’unico davvero in grado di offrire all’individuo l’opportunità di realizzare liberamente le proprie qualità personali e professionali. Camus diceva che la libertà non è altro che una possibilità di essere migliori, mentre la schiavitù è certezza di essere peggiori.
Nel mondo globale, gli individui rifiutano in maniera sempre più netta di vivere sotto regimi autoritari in cui le chance di realizzazione personale sono vanificate dal sopruso, il merito sopraffatto dai privilegi, la concorrenza frustrata dalla corruzione. La Primavera araba è stata la più travolgente manifestazione del rigetto di tale esistenza artificiale e della domanda di dignità personale e libertà. Gli studenti, gli uomini e le donne scesi in Piazza Tahrir, nelle vie di Tunisi e Bengasi, e che oggi continuano a rischiare la vita per le strade di Damasco, invocano diritti e libertà. Diritti e libertà che sono alla base dell’identità politico-culturale dell’occidente e, mi piace ricordarlo, della nostra Costituzione.
In un mondo collegato da internet e dai social networks, l’influenza della Primavera araba non poteva essere limitata al solo Mediterraneo: i giovani di tutto il mondo ne sono stati affascinati e, in taluni casi, ispirati. Per fare solo un esempio, nell’incontro che ho avuto nelle scorse settimane con le autorità di governo di Singapore, mi è stato detto che la ragione per la quale la giunta birmana ha deciso di avviare i processi di riforme democratiche sarebbe soprattutto riconducibile all’effetto delle primavere arabe. L’esempio dei giovani arabi ha così prodotto aperture e riforme che solo due anni fa erano del tutto inattese, in un Paese asiatico geograficamente e culturalmente lontanissimo dal Mediterraneo.


Necessità di un “balzo” in avanti psicologico –Ricordare i punti di forza di Stati Uniti ed Europa non deve indurci a commettere l’errore opposto: quello di sottovalutare il crescente peso dell’Asia. Può allora essere utile, ad esempio, rileggere alcuni cruciali passaggi degli ultimi 20 anni. Pensiamo a due date simbolo come il 1989 e il 2001. Guardato in retrospettiva, il 1989 non fu un fatto solo occidentale. Non fu solo la “caduta del Muro” e la fine della guerra fredda, né tanto meno la fine della storia, come qualcuno troppo frettolosamente sentenziò. Fu anche l’anno di Piazza Tienanmen, il momento più drammatico nell’evoluzione del sistema cinese. E il 2001 non fu solo la tragedia dell’11 settembre e l’inizio della guerra al terrorismo, ma anche l’ingresso della Cina nel WTO: l’evento economico di maggiore rilievo nel primo scorcio del XXI secolo, che ha trasformato un’economia semi-chiusa in una delle principali locomotive della crescita mondiale.


L’esigenza di un nuovo ordine globale: il futuro dell’Europa –L’affermazione di potenze emergenti ha modificato il panorama internazionale e posto l’esigenza di elaborare una più efficace governance globale. Noi europei dobbiamo iniziare dall’Unione Europea ed essere capaci, come ha sottolineato il Presidente della Repubblica, di “aggiustare” la costruzione europea rispetto a una fase critica della globalizzazione.
Per difendere l’euro e uscire dalla crisi del debito ogni Stato membro deve fare fino in fondo la sua parte in termini di austerità fiscale e rilancio della crescita economica. Nessuno può sottrarsi alle sue responsabilità. Traendo forza vitale dalla sua fiducia nel progetto europeo, l’Italia sta dando il buon esempio. Non siamo più causa del problema, ma siamo diventati parte della soluzione. Abbiamo operato con rapidità e efficacia, adottando misure significative che ci hanno restituito credibilità internazionale. In Europa e nel mondo, riscontriamo gratitudine e apprezzamento per il lavoro svolto.
A Bruxelles sono state fatte nuove scelte importanti: il trattato intergovernativo sul fiscal compact; l’accordo sulle politiche di sostegno dell’economia greca. Ma tutto questo ancora non basta. Dobbiamo investire nella crescita e aumentare la competitività del mercato interno, come abbiamo già cominciato a fare con l’ultimo Consiglio Europeo su impulso del Presidente Monti. E dobbiamo tornare a infondere nel progetto europeo quello spirito politico superiore che ispirò la visione dei Padri fondatori dell’Europa unita.
Avvertiamo l’esigenza di inquadrare gli accordi in materia di bilancio in una cornice più generale, che rifletta la visione sul ruolo dell’Europa del domani. Intendiamo porre sul tavolo senza pregiudizi e senza paure anche temi fondamentali, quali l’esigenza del rafforzamento delle Istituzioni, di un’Europa più solidale, di un metodo autenticamente comunitario, di una strategia di sicurezza più funzionale alle nuove sfide. Tali temi hanno bisogno di maturazione, ma è bene affrontarli fin d’ora, se vogliamo davvero aspirare all’obiettivo dell’unione politica. Unione che non deve però essere intesa come omologazione delle diverse realtà. Al contrario, come osservano Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti nel loro bel libro “Una e molteplice”, la riconciliazione dell’Europa con la varietà delle proprie radici è la condizione perché l’Europa possa dare il suo decisivo contributo al riconoscimento del valore della varietà delle esperienze umane su scala globale.
L’Europa ha sempre trasformato le sue crisi in grandi opportunità. Se riusciremo a farlo anche stavolta, non solo avremo superato uno dei momenti più difficili del nostro comune percorso, ma avremo anche dato forma a un continente più integrato, più dinamico e meglio attrezzato per far valere le sue posizioni nella competitiva realtà globale.



Il triangolo UE-USA-ASIA – Accanto al rafforzamento delle regole di governance, saranno determinanti anche per noi europei i nuovi equilibri che si svilupperanno lungo tre direttrici: quella transatlantica, quella transpacifica e quella euro-asiatica. Tre dinamiche la cui interazione lascia intravedere un triangolo con ai vertici Stati Uniti, Unione Europea e il continente asiatico.



(1) La “direttrice transatlantica” – Respingere la retorica di un Occidente condannato al declino vuol dire anche riaffermare la centralità di un rapporto transatlantico rinnovato. Quando si tratta di affrontare questioni cruciali per la sicurezza internazionale – dalla stabilizzazione in Afghanistan alle sanzioni contro l’Iran – la cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico sarà sempre più fondamentale.


Allo stesso tempo, il raccordo tra Stati Uniti ed Europa è decisivo per favorire la globalizzazione – non solo delle comunicazioni e dei mercati – ma anche dei diritti civili e politici. Qualità e quantità della cooperazione economica transatlantica sono un dato centrale del panorama internazionale: Europa e Stati Uniti si scambiano beni e servizi pari al 40% del commercio internazionale. E le regole basilari del commercio e della finanza mondiali sono il frutto di decenni di storia sul versante europeo e su quello americano, per creare uno “stato di diritto” al quale legare valori e comportamenti della comunità euro-atlantica.
Ribadire la validità del rapporto transatlantico non è però sufficiente. Dobbiamo aggiornarne i contenuti. E l’Italia sta lavorando – con Washington e in seno all’Unione Europea – per definire con gli Stati Uniti un’agenda transatlantica al passo con le nuove sfide globali. E’ prioritario costituire un efficace partenariato euro-atlantico che guardi anche all’Asia. Europei e americani hanno obiettivi che coincidono perfettamente: che si tratti di contenere i rischi di non proliferazione relativi alla Corea del Nord; di favorire l’evoluzione democratica in Birmania; di difendere la libertà di navigazione dagli attacchi dei pirati nell’oceano indiano; di promuovere il libero commercio e l’accesso al mercato per le nostre imprese; di difendere il diritto di proprietà intellettuale; di chiedere il rispetto dei diritti umani; di sostenere un’architettura multilaterale regionale che regoli – insieme a merci, finanza e servizi – la sicurezza dei Paesi asiatici.



(2) La “direttrice transpacifica” – La seconda direttrice chiave è quella transpacifica, in cui assume particolare rilevanza il rapporto tra Stati Uniti e Cina. Un rapporto complesso, fatto di cooperazione e competizione, che rappresenta la sfida strategica più importante del XXI secolo. E’ interesse di tutti noi, Europa e Italia in primis, che tale sfida si mantenga in termini costruttivi. Devono prevalere le regole di coesistenza trasparenti, che diano fiducia e favoriscano l’integrazione economica, industriale, commerciale e finanziaria.
Vi sono però studiosi che, forse sottovalutando la portata di questa integrazione, paventano il rischio di una contrapposizione tra Stati Uniti e Cina. L’Europa può contribuire a scongiurare tale rischio, facilitando il dialogo anche alla luce della propria esperienza. Occorre superare – da un lato – la diffidenza della Cina nei confronti di una politica americana che mirerebbe a contenerne la crescita di influenza; e, dall’altro, il sospetto di Washington e di altre capitali asiatiche per il rafforzamento del dispositivo militare cinese nel Pacifico.
Europa e Stati Uniti hanno una grande esperienza nei meccanismi di verifica e controllo degli equilibri strategici. In un’epoca in cui il vecchio continente era diviso in due blocchi e le divisioni erano evidentemente molto più marcate e pericolose delle attuali divergenze sino-americane, tali meccanismi contribuirono a un efficace dialogo est-ovest, mantenendo l’equilibrio sia strategico sia convenzionale in tutto il continente europeo e nell’intera area atlantica. Non vi è ragione perché tale esperienza non possa essere positivamente riproposta nel mar della Cina meridionale.


(3) La “direttrice euroasiatica” – La terza direttrice è quella euro-asiatica. Per cogliere le opportunità offerte dall’ascesa pacifica dell’Asia, l’Europa deve abbandonare ogni atteggiamento timoroso, che l’ha indotta a vedere nelle economie asiatiche un fattore di vulnerabilità per il suo benessere, una minaccia per le sue imprese. Serve invece un approccio dinamico, competitivo e aperto al confronto.
Possiamo trarre ispirazione da Bergamo e dalla sua tradizionale vocazione orientale, frutto della comune storia con Venezia ma anche del lungimirante e attivo sistema produttivo. Già quarant’anni fa a Bergamo si parlava delle grandi potenzialità della Cina: non è quindi un caso, né una sorpresa se oggi vi sono così tante imprese bergamasche radicate con successo nei vitali mercati asiatici.
Con la mia recente missione in India, Vietnam e Singapore ho voluto sottolineare l’esigenza che la politica estera italiana confermi la sua grande attenzione all’Asia: un continente che deve assumere ancor maggiore centralità nei rapporti bilaterali e in quelli euro-asiatici. Muovendo da questa premessa, intendo lavorare su due fronti.


Sul piano nazionale, occorre valorizzare le enormi potenzialità di investimento in Asia. In questa ottica, è in programma la prossima settimana alla Farnesina (22-23 marzo) l’Asean Awareness Business Forum per presentare alle imprese italiane le opportunità di collaborazioni industriali con i Paesi dell’Asean; e successivamente organizzeremo un road show in quattro città italiane incentrato proprio sul Vietnam.


Sul piano l’europeo, l’Italia si sta impegnando perché l’Unione Europea raggiunga due obiettivi. Il primo è la creazione di partenariati autenticamente strategici con i Paesi della regione, affermandosi ai loro occhi come soggetto economico e commerciale e come interlocutore politico di primo piano.


Il secondo obiettivo riguarda il contributo ai processi di integrazione regionale e al rafforzamento di un sistema multilaterale nell’area. La cooperazione della UE con la regione si avvale di vari strumenti, come il dialogo con l’ASEAN, oltre all’ASEM e all’ASEAN Regional Forum. L’Unione Europea deve investire in questi esercizi e parteciparvi a livello adeguato.


Conclusioni


Signore e Signori,


vorrei concludere questo intervento con un messaggio di fiducia verso l’Italia e il nostro futuro. Il 2011 è stato un anno difficile. La crisi economica ci ha imposto forti sacrifici. Capisco che chi sta terminando gli studi accademici, chi ha investito nella formazione universitaria la più bella stagione della propria vita e significative somme di denaro, possa oggi essere preoccupato del domani. Il Governo è impegnato nel risolvere il problema della disoccupazione giovanile. Una società che limita l’accesso al lavoro delle giovani generazioni si priva delle sue risorse più vitali.
Il 2011 è stato anche l’anno del 150simo anniversario dell’Unità d’Italia, e sono lieto di ricordarlo proprio a Bergamo, nella “Città dei Mille”. Le celebrazioni cui abbiamo preso parte hanno risvegliato la nostra coscienza nazionale e unitaria. Abbiamo recuperato il senso di un progetto comune anche per il futuro. E abbiamo rinsaldato la consapevolezza che esiste una forte domanda d’Italia nel mondo: grazie alla ricchezza della nostra cultura, alla leadership che esprimiamo nella difesa dei diritti universali, alla proiezione del nostro sistema produttivo, al grande patrimonio costituito dagli italiani che lavorano e operano all’estero.
La centralità dell’individuo e delle sue libere scelte, la cultura del merito e l’apertura al libero confronto devono tornare a essere il punto di forza dell’Italia. Qualità che devono ispirare quel nuovo umanesimo, invocato dal Magnifico Rettore nella sua illuminante relazione. Credo allora che la migliore esortazione a voi studenti resti quella che Steve Jobs rivolse nel 2005 agli studenti dell’Università di Stanford: “stay hungry, stay foolish”. Rimanete “affamati”, curiosi, e non perdete quel pizzico di “follia” che permette di porsi obiettivi ambiziosi e di realizzarli. Gli artefici del futuro siete voi!

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