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Dassù:”Indispensabile allargare l’Occidente” (La Stampa)

Caro direttore,


l’Occidente è inevitabilmente in declino? A questo ormai annoso dibattito, acutizzato dalla crisi finanziaria, Zbigniew Brzezinski ha risposto di no, ieri sulla «Stampa». Ma l’anti-declino ha bisogno di due condizioni, per riuscire: la prima è domestica, l’America deve riscoprire le ragioni della propria «primazia» (l’innovazione, l’educazione, il dinamismo sociale); la seconda appartiene alla categoria delle «visioni strategiche». E la visione proposta dall’ex consigliere alla Sicurezza nazionale è semplice e lineare: l’Occidente deve allargarsi, per non perdere rilevanza e influenza nel secolo asiatico. Allargarsi in che direzione? In un libro appena uscito a Washington, Brzezinski sostiene che l’Occidente «plus» potrebbe essere immaginato così, fra un paio di decenni: una testa ancora americana (se anche l’America, appunto, farà i suoi compiti a casa), un cuore europeo (se l’Ue diventerà un’Unione politica vera), braccia e gambe allargate verso una Russia che scelga la democrazia compiuta, verso una Turchia più europea che neo-ottomana e verso vecchi e nuovi alleati asiatici intenzionati a bilanciare la Cina. Visione strategica o schema destinato a restare sulla carta? In realtà, proprio mentre la crisi finanziaria sta mettendo a dura prova le democrazie liberali e proprio quando la combinazione fra capitalismo e autoritarismo comincia a proporsi come modello alternativo, un ripensamento dei contorni dell’Occidente è indispensabile. Per Brzezinski, è chiaro che la forza comparata degli Stati Uniti va ricostruita anzitutto dall’interno, così come quella degli europei richiede un’Unione più solida. Ma è chiaro anche che il vecchio rapporto transatlantico non è più sufficiente, di fronte allo spostamento del potere economico, demografico, finanziario, verso nuove potenze. La proiezione occidentale verso il continente euro-asiatico è, dal suo punto di vista, la priorità strategica di questo secolo. La mappa mentale di Brzezinski è ancora «orizzontale», da Ovest verso Est. E continua a riflettere, assieme all’impatto dell’ascesa della Cina, i nodi rimasti irrisolti dal secolo scorso: integrare la Russia nella comunità occidentale è una delle speranze almeno in parte mancate del post 1991. II veto russo all’Onu sulla Risoluzione di condanna della Siria conferma tutta la distanza che resta. Con conseguenze nefaste: in questo caso per la popolazione siriana, esposta da mesi a una repressione brutale. Esiste anche, tuttavia, una mappa «verticale» da esplorare: la possibilità, cioè, di associare le sponde meridionali dell’Atlantico, dove grandi potenze economiche in pectore come il Brasile possiedono in teoria un «software» democratico occidentale, quelle radici storiche e culturali che ne costituiscono la base identitaria. In altri termini: l’Occidente più largo potrebbe avere una gamba importante non solo più a Est ma più a Sud. E la visione strategica potrebbe essere questa: una comunità «panatlantica» del XXI secolo, in grado di beneficiare di risorse tangibili (la spinta aggiuntiva di un’area emergente) e di fare leva su radici culturali comuni. Per gli europei, prima che per gli Stati Uniti, tenere in vita l’Atlantico è una condizione per continuare a contare, nel secolo del Pacifico. Anche per questa ragione, proposte come la creazione di qualcosa di simile a una free trade area transatlantica andrebbero valutate non solo in chiave economica (con i loro costi e benefici settoriali) ma anche per la loro importanza strategica. La visione prescritta agli Stati Uniti da Brzezinski guarda peraltro correttamente all’Asia orientale come a una regione dove, economia globale o no, la geopolitica classica continua a contare. L’interdipendenza economica fra Washington e Pechino o l’importanza dei rapporti commerciali fra Cina e Germania non eliminano linee di faglia da ventesimo secolo, con dinamiche fatte di deterrenza e di equilibri militari. Alla luce di questo dato, il ruolo di «balancing» che Brzezinski raccomanda agli Stati Uniti in Asia resta necessario; la revisione della strategia di sicurezza americana va del resto in questo senso. Ragione di più perché gli europei assumano una quota crescente di responsabilità ai loro confini, nel Nord Africa e nei Balcani. L’Occidente, per restare influente sul piano globale, non deve solo allargarsi, quindi; deve anche specializzarsi. Nulla di tutto questo funzionerà, evidentemente, se la prima prescrizione di Brzezinski agli Stati Uniti, che vale in genere per le democrazie occidentali – quella di rivitalizzare se stesse e la propria economia – non reggerà alla prova dei fatti. Come ha sostenuto Niall Ferguson su Aspenia, una delle cause del relativo declino dell’Occidente è la tendenza a rinunciare alle proprie armi vincenti: la concorrenza, la ricerca scientifica, l’etica del lavoro, fino a dubbi nei propri sistemi politici. Negli ultimi due decenni, la rivoluzione delle aspettative «crescenti», che aveva garantito il successo del modello occidentale, si è trasformata nel suo opposto. Le conseguenze economiche politiche e sociali sono ancora tutte da misurare. E questa la ragione essenziale per cui ripensare, allargare, ma anche ritrovare l’Occidente, appare indispensabile.

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