This site uses technical (necessary) and analytics cookies.
By continuing to browse, you agree to the use of cookies.

Serbia, test per Europa

Il 24 marzo del 1999 le prime bombe sganciate dagli aerei della Nato andavano a colpire le postazioni delle forze armate serbe schierate sul territorio del Kosovo.


Tredici anni dopo, a Bruxelles, la Serbia ottiene lo status di candidato a membro dell’Unione Europea. La Storia ha in genere tempi più lunghi. L’ingresso a pieno titolo di Belgrado nel consesso delle nazioni europee avverrà alla fine di negoziati complessi. Ma siamo già – con l’adesione della Croazia e lo status di candidato della Serbia – alla conclusione di un ciclo, quel ciclo di sanguinose guerre balcaniche che, a intervalli ricorrenti, hanno sconvolto gli equilibri europei. Per l’Italia, che vede nell’integrazione europea dei Paesi dei Balcani occidentali una condizione necessaria per la stabilità dell’intera regione adriatico-danubiana ai nostri confini, è un successo diplomatico rilevante. Europeizzare i Balcani o balcanizzare l’Europa? Questa vecchia domanda suona ormai superata. Allargare l’Ue ai Balcani significa avvicinarli alle nostre regole e ai nostri standard in tutti i settori in cui si esplica la vita della società civile europea quale la conosciamo: qualcosa di impensabile fino a poco più di una decina di anni fa.


Una parte degli osservatori europei danno a scadenze regolari l’allargamento per spacciato: per convinzione (la dilatazione dei confini diluisce l’Unione), per sfiducia (l’opinione pubblica pesa contro) o per scarsa immaginazione. Si è aggiunta un’ultima motivazione: l’Europa, a causa della crisi del debito sovrano, sarebbe ormai priva di potere di attrazione. Non è esattamente così. Se il Consiglio europeo è in grado di approvare insieme il «fiscal compact» e la decisione sul destino della Serbia, questo significa che l’Ue – per quanto affaticata e introversa possa essere giudicata – ha ancora un «soft power»: interno ed esterno. In un dibattito recente alla Brookings Institution di Washington, ho cercato di sottolineare questo punto. L’Europa verrà fuori dalla crisi dell’euro-zona più lentamente di quanto avrebbe dovuto e potuto; ma riuscirà a farlo. E, facendolo, avrà anche contribuito in modo molto rilevante alla stabilità internazionale.


Mentre l’Europa rafforza le regole fiscali – premessa necessaria ma non sufficiente per la crescita – e mentre si allarga ai Balcani, rischia d’altra parte di differenziarsi in livelli diversi: una struttura «multi-tier» è uno scenario realistico. Mario Monti lo considera negativo, e anche per questa ragione sta giustamente cercando di tenere agganciata Londra alla governance economica comune. Con una Gran Bretagna periferica, infatti, ne soffrirebbe la vitalità del mercato unico, lo strumento più efficace per riprendere a crescere.


E’ un rischio vero. E’ vero anche, tuttavia, che un certo grado di flessibilità interna alla struttura europea potrebbe servire. Proviamo ad immaginare, per esempio, che l’ingresso nell’Unione europea non preveda necessariamente un futuro ingresso nell’euro. In altri termini: restare al di fuori della moneta unica, essendo all’interno del mercato unico, non dovrebbe più essere un «opt out» (una sorta di auto-esclusione) ma una visione possibile e razionale del modo in cui stare in un’Europa che non deve più essere identificata solo con l’euro. Certo, così nascerà appunto un’Europa «multi-tier». Ma quest’esito, insieme a qualche rischio per le istituzioni comuni, potrebbe anche avere dei benefici. Non ultimo quello di rendere più semplice allargamenti ulteriori verso i Balcani e, in prospettiva, la Turchia.


La logica economica e quella geopolitica non sempre coincidono perfettamente.

You might also be interested in..