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Dettaglio intervista

Caro Direttore, sappiamo ormai con certezza due cose, che incidono sull’agenda del G20 di Los Cabos. La prima è che i Brics stanno incontrando – in misura maggiore India e Brasile, in misura minore la Cina – i loro problemi: l’idea di una espansione economica praticamente ininterrotta di queste economie era poco fondata dall’inizio ma oggi è provata. E quindi torniamo alla realtà: nessuna economia può crescere a tassi così rapidi troppo a lungo. Siamo alla fine di un ciclo. Cina, India e Brasile sono e saranno comunque grandi economie globali, ma è bene mettere da parte aspettative irrazionali. La questione non è solo economica: dal punto di vista dei Brics, gran parte delle difficoltà sono il riflesso della crisi europea. Cosa vera soltanto in parte, naturalmente. Ma resta che l’Europa, al tavolo G20, è messa sotto accusa sia da Obama che dagli ex «emergenti».


Seconda cosa che sappiamo: esistono, accanto ai Brics, economie di taglia minore ma in fase di crescita rapida. Sono i «pre-Brics» (definizione forse più comoda di altre sigle generate a cadenza biennale dalle Agenzie internazionali): paesi come la Colombia e il Messico, il Vietnam o l’Indonesia. Per le capacità di esportazione e per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, i pre-Brics stanno diventando, da mercati secondari, interlocutori primari.


Prendiamo il caso dell’America Latina. Nei giorni scorsi ho guidato quasi 60 imprenditori in una missione in Colombia, organizzata dal Ministero degli Esteri insieme a Unioncamere e all’Associazione Nazionale Costruttori. Con un prodotto interno lordo che cresce ad un ritmo di oltre il 5% annuo, con un’economia ricca di materie prime e aperta all’esterno, con un’inflazione sotto controllo e con un quadro politico finalmente stabile, la Colombia – anch’essa invitata al G20 – rientra sicuramente in questa definizione: è un «pre-Bric». Il Presidente Santos, esponente di una elite formata in America e coltivata in Europa, è stato molto convincente nell’illustrare la forza del modello economico colombiano, «business friendly» e tra i più aperti del Sud America agli investimenti diretti esteri. I problemi storici del paese – dal narcotraffico alle Farc – non sono scomparsi, naturalmente. Ma appaiono sotto controllo. Ed è il caso di liberarsi degli stereotipi: la Colombia, in realtà, combina «fortuna» geopolitica (all’incrocio fra Costa Pacifica e Caraibi) e «saggezza» delle classi dirigenti.


Il caso della Colombia è interessante anche perché Bogotà è uno dei Paesi latinoamericani che hanno scelto l’apertura commerciale quale leva del proprio sviluppo economico. In maggio, ha firmato un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, cui si aggiunge un accordo analogo con l’Unione Europea. Non solo, il 6 giugno scorso, nel deserto cileno di Atacama, la Colombia insieme al Perù, al Messico e al Cile, ha costituito la «Alianza del Pacifico», un’area di libero scambio aperta verso gli Stati Uniti e l’Asia.


L’Alianza del Pacifico è un grande mercato potenziale, che equivale a un terzo circa del Pil totale dell’America Latina e al 50% del suo commercio globale. Per non cadere ancora una volta nella sindrome delle aspettative irrazionali, è bene averne chiari i margini: le opportunità non saranno illimitate, visto che i paesi membri dell’area andina si basano soprattutto sull’export di materie prime e dato che solo il Messico, per ora, può fare leva su una base industriale realmente sviluppata.


Si tratta, tuttavia, di un’alleanza significativa anche perché altri gruppi regionali stanno incontrando non pochi problemi. Il Mercosur è diviso al suo interno, con tendenze neo-protezionistiche che non aiutano certo. L’asse «bolivariano», capeggiato dal Venezuela di Chavez, preoccupa gli investitori esterni anziché attirarli. In sostanza – e questo è un aspetto su cui l’osservatorio di Los Cabos aiuta a riflettere – la «Alianza del Pacifico» è in questo momento l’alternativa economicamente «liberale» forse più incoraggiante delle Americhe.


Nel momento in cui la sponda atlantica dell’America Latina si espande verso l’Africa e quella pacifica punta a proiettarsi verso l’Asia, l’Italia ha tutto l’interesse a consolidare la sua presenza politica e a potenziare quella economica su entrambe le coste del continente americano. Per l’Italia (e per un’Europa che riesca a superare la propria crisi), si tratta di adottare una visione «Pan-atlantica» aggiornata: che da una parte consentirà di sviluppare anche sull’asse verticale (dall’Atlantico del Nord verso Sud) le relazioni con le Americhe; dall’altra, permetterà di costruire, attraverso le Americhe, nuovi accessi anche ai mercati del Pacifico. Sono le geometrie del nuovo secolo. L’impresa italiana, più rapidamente della politica europea, sembra avere capito che derivano da qui le proprie possibilità di restare competitiva.


 

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