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De Mistura: «2013, le tre sfide per l’Italia nel mondo» (L’Uninità)

Le sfide internazionali del 2013 e l’impegno italiano in Europa e nel mondo. L’Unità ne discute con Staffan De Mistura, vice ministro degli Esteri, già Rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Iraq (2007) e Afghanistan (2010). «Di certo, il 2013 – rimarca De Mistura – non può essere l’anno dei rinvii».


Quali sono le crisi più esplosive del 2013 e come affrontarle?


«I dossier più caldi sono tre. Il primo riguarda la Siria. Sarebbe francamente sorprendente e deludente se una soluzione politica non si determini entro questa estate. Ogni mese di ritardo significa altre vittime, altri profughi, altre tragedie. E ciò è inaccettabile. Altro nodo da sciogliere è l’Iran. Dopo le elezioni israeliane del 22 gennaio e dopo i vari tentativi della Comunità internazionale, sarà inevitabile che si faccia chiarezza sulla questione nucleare di Teheran. L’augurio, e l’impegno, è che si arrivi ad una soluzione politica che eviti un conflitto devastante. Il terzo nodo da sciogliere riguarda la questione israelo-palestinese. Dopo il voto in Israele e quello che c’è stato al palazzo di Vetro sulla Palestina come Stato non membro dell’Onu, sarà necessario con maggiore energia e accelerazione la ripresa di un dialogo reale e concreto tra Israele e Autorità Palestinese per una pace duratura, fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Il 2013 è l’anno in cui questi dossier non potranno essere ignorati o rinviati, pena tensioni e conflitti che renderebbero il 2013 un anno drammatico».


Altro fronte caldo è l’Afghanistan. Cosa ci attende?


«Una certezza e un aggiornamento. La certezza è che il piano di trasferimento delle responsabilità della sicurezza dalle forze internazionali della Nato a quelle nazionali afghane, continuerà irreversibilmente».


Da cosa nasce questa convinzione?


«Dal fatto che s’incontrano due volontà: in primo luogo, quella del governo afghano, e poi quella, altrettanto forte, dei Paesi Nato impegnati in Afghanistan, che hanno deciso di applicare fino in fondo le conclusioni della Conferenza di Lisbona, riguardo al trasferimento delle responsabilità di sicurezza dalla Nato agli afghani».


Queste le sfide più stringenti. Altri fronti d’impegno?


«L’accompagnamento graduale, a volte sofferto ma costante, sulla strada della democrazia e dei diritti umani dei Paesi “investiti” dalla Primavera araba. Mi lasci aggiungere che le nuove forme di sfruttamento delle risorse energetiche – petrolio e gas – da parte americana, comporterà una progressiva riduzione dell’interesse e dell’intervento sul Medio Oriente degli Stati Uniti e, di converso, un aumento delle responsabilità affidate all’Europa e, in essa, all’Italia».


L’Italia, per l’appunto. Quali le sfide che attendono il governo che uscirà dalle elezioni di febbraio?


«La prima sfida si chiama Europa. Occorre far sì che l’Italia sia sempre più parte attiva della soluzione della crisi economica europea, incrementando ulteriormente la nostra credibilità con l’obiettivo strategico di rendere l’Europa più integrata e più solidale».


E fuori dal Vecchio continente?


«Abbiamo due priorità: la prima è quella di accompagnare il processo di democratizzazione e di stabilità dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. L’altra priorità è di favorire le iniziative internazionali per la stabilizzazione del Mali e della Somalia, due aree di crisi di particolare gravità. A ciò si accompagna il sostegno ad una soluzione rapida, e politica della tragedia siriana…».


Su quali direttrici?


«Coinvolgendo al Russia nella ricerca di una soluzione condivisa al Consiglio di Sicurezza, sostenendo gli sforzi diplomatici dell’inviato per la Siria di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, e rafforzando l’impegno, già in atto, negli aiuti umanitari alla popolazione civile siriana e ai paesi confinanti che devono far fronte all’emergenza profughi. Più in generale, ritengo che l’Italia debba fare del rispetto dei diritti umani, in particolare quelli delle donne, un perno della sua politica estera, come abbiamo cercato di fare in Afghanistan. E sull’Afghanistan c’è un “consiglio” che mi sento di dare a chi sarà chiamato a guidare nel futuro governo la nostra politica estera…».


Qual è questo consiglio?


«Monitorare con particolare attenzione l’uscita dall’Afghanistan, così come stanno facendo altri Paesi, a cominciare dagli Usa. Monitorare e, quanto più possibile, accelerare questa uscita militare. In Afghanistan abbiamo fatto la nostra parte e la continueremo a fare, ma a mio parere dovremmo accelerare il nostro redeployment per poter essere pronti altrove. Come hanno fatto anche i francesi, uno può essere coerente, e lo siamo stati per 12 anni, ma nello stesso tempo non rimanere molto, troppo a lungo quando in effetti gli stessi afghani hanno dimostrato che possono benissimo gestire, nonostante il Paese non sia perfetto, le operazioni di peacekeeping interno».


Altre priorità per il 2013?


«Un altro impegno di valenza strategica è quello di rafforzare il sistema-Paese in Asia e Africa, favorendo così la presenza in quelle aree di crescita delle nostre aziende medio-piccole. Il che significa, tra l���altro, investire di più, in quantità équalità, sulla Cooperazione».


L’ultimo argomento è quello che so essere il più delicato, per l’impegno che lei ha avuto in prima persona in questa vicenda: mi riferisco ai due marò italiani che mentre parliamo hanno dovuto far ritorno in India.


«Il ritorno dei nostri marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in India è la dimostrazione di due fatti: il primo, che quando l’Italia dà la sua parola, poi la mantiene. In secondo luogo, è la dimostrazione della grande dignità e della buona fede dei due sottufficiali del Battaglione San Marco e, al tempo stesso, della ferma convinzione dell’Italia che l’immunità funzionale dei nostri due militari debba essere riconosciuta».


C’è chi ha accusato il governo italiano di arrendevolezza verso New Delhi.


«Il governo italiano e le più alte cariche dello Stato, hanno tenuto su questa vicenda, durante gli ultimi undici mesi, una posizione chiara e costantemente coerente: i nostri militari vanno giudicati in patria. La nostra azione, quindi, a 360 gradi, in campo giudiziario e internazionale, è stata imperniata, e lo rimarrà, su questa linea. Proprio per questo, siamo ragionevolmente convinti che la Corte Suprema indiana riconoscerà tale posizione. E qualora ciò non avvenisse, abbiamo in cantiere una serie di iniziative molto ferme e di valenza internazionale».