(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)
Un caloroso saluto, da parte del governo e di Emma Bonino in particolare, al Presidente Simonelli Santi e ai rappresentanti delle nostre Camere di Commercio venuti da tutto il mondo. Non c’è bisogno di ripetere qui quanto essenziale sia il ruolo svolto dal sistema camerale nella promozione del prodotto italiano e nell’assistenza alle nostre imprese che si affacciano sui mercati stranieri. Io stessa ho potuto constatarlo, ripetutamente, in occasione delle tante missioni effettuate all’estero, alcune insieme a voi. Mi fa quindi molto piacere partecipare a questa impegnativa Convention, anche se mi rammarico di non poter essere presente domani alla seduta su Expo 2015, che come sapete seguo in prima persona da quasi due anni. Siamo tutti, purtroppo, schiavi dell’agenda.
Più che entrare nel dettaglio dell’attività delle Camere, cosa che lascerei fare ai qualificati oratori che interverranno dopo di me, vorrei invece fare qualche riflessione sull’attuale congiuntura economica in Italia e nel mondo e su cosa possono fare, ognuno rispettando il proprio ruolo, la diplomazia, le imprese e le Camere per superare una fase di indubbia difficoltà in cui sempre di più ci si affida alla proiezione estera.
Le stime d’autunno presentate martedì dalla Commissione Europea indicano che dopo un lungo periodo di recessione l’Italia dovrebbe finalmente tornare a crescere. Rivedere il segno + davanti agli indicatori del PIL fa indubbiamente piacere, ma i tassi di crescita previsti sono modesti (+0,7% nel 2014, + 1,2% nel 2015) e la disoccupazione probabilmente si manterrà a livelli elevati. Le riforme richiederanno tempo per produrre i loro effetti e nel frattempo gli squilibri strutturali continueranno a frenare la competitività del paese. Gli operatori per ora ci danno fiducia – le ultime aste dei BTP sono andate anche meglio del previsto – ma l’Italia mantiene il primato di primo emittente di titoli di Stato dell’eurozona e il nostro debito ci espone alle incertezze dei mercati e del ciclo. La stretta creditizia, in particolare, soffoca le aziende e comprime la domanda: il Governatore Visco ha dichiarato che dal 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti di 70 miliardi.
Giusto quindi contare sull’inizio della ripresa, ma senza perdere di vista il fatto che l’uscita dalla crisi è ancora lontana. Fattori come il credit crunch, i vincoli di bilancio e la comprensibile cautela di consumatori e imprese continueranno a pesare ancora a lungo sulla domanda interna, spingendo sempre più le imprese italiane a cercare sbocchi all’estero.
E proprio perché il comparto estero svolgerà un ruolo fondamentale nel trainare la crescita, molto dipenderà dall’andamento dei principali mercati di riferimento. Negli Stati Uniti le prospettive sono di crescita stabile, anche se inferiore al potenziale, grazie ad una politica monetaria espansiva e alla nuova vitalità del comparto industriale, che mostra rinnovata competitività nei costi e nell’innovazione e capacità di attrarre gli investimenti. Su questo punto tornerò brevemente più avanti.
Le prospettive per l’Europa sono invece meno chiare. Anche in Europa è previsto una moderata crescita del PIL, ma – a differenza degli Stati Uniti – nella maggior parte degli Stati membri il reddito pro-capite è ancora inferiore a sei anni fa. Gli investimenti nell’area euro sono crollati del 19% dal 2009 (in Italia di circa il 25%), con relativa perdita di posti di lavoro, di know how, obsolescenza di attrezzature etc, tutte cose che frenano la competitività. Persino paesi come la Finlandia e i Paesi Bassi si sono fermati, a dimostrazione che la crisi ha raggiunto il nucleo dell’Europa e non è più solo un problema della periferia.
La differenza di approccio ha giocato a mio parere una parte importante. Gli USA hanno affrontato di petto i problemi del sistema finanziario, investendo risorse ingenti (che gli intermediari finanziari hanno poi restituito al Tesoro) per assicurarne il risanamento e metterlo nuovamente in grado di svolgere i suoi compiti essenziali: assicurare un’efficiente allocazione del risparmio, finanziare gli investimenti produttivi e assegnare un valore agli assets sulla base di un’accurata valutazione del rischio. In Europa invece abbiamo scelto di concentrarci quasi esclusivamente sui conti pubblici, senza aggredire in modo determinato il pericoloso intreccio tra i bilanci delle banche e il debito sovrano. Questo, in effetti, sarebbe l’obiettivo dell’Unione Bancaria, ma le cose procedono molto lentamente. Risultato: la frammentazione del mercato del credito e la stretta creditizia – che non ha interessato solo l’Italia, visto che il lending è diminuito anche in paesi come la Germania, l’Austria e la Francia.
Cambierà questo approccio? Riuscirà l’Europa a imboccare nuovamente la strada della competitività o è destinata ad una stagnazione di tipo “giapponese”, proprio mentre il Giappone, fra l’altro, sembra aver ritrovato dinamicità grazie alle aggressive politiche economiche del Primo Ministro Abe? Molto dipende, come sempre, dalla Germania. Recentemente critiche a una politica basata sull’austerity sono venute, in modo insolitamente esplicito, dal Tesoro americano, ma non è ancora chiaro se la nuova coalizione di governo che si insedierà prossimamente a Berlino sarà più disposta della precedente ad ascoltare questo tipo di messaggi. Il mio punto, in ogni caso, è che – avendo dimostrato la propria credibilità sul fronte fiscale – nella seconda metà del 2014 l’Italia cercherà anche il consenso di Berlino per orientare la legislatura europea sul versante della crescita.
La domanda sull’UE è importante, perché l’Europa costituisce ancora il principale mercato di sbocco per le nostre merci e la prima destinazione dei nostri investimenti diretti all’estero – oltre il 70% del totale. Ciò detto, la quota dell’Unione Europea è in lieve ma continuo calo, a vantaggio di altre aree a più alto potenziale di crescita: l’Asia, in primo luogo – non solo Cina, ma anche India, ASEAN, Corea, Taiwan – il Golfo, la Turchia, l’Europa orientale. Nell’Africa sub-sahariana e in America Latina i volumi sono ancora bassi, ma il potenziale è elevato. L’America Latina, peraltro, è già ora un mercato importantissimo per le aziende che operano nel settore delle infrastrutture, con il 28% delle commesse in corso.
Questo dunque è il quadro in cui ci muoviamo. Si tratta ora di vedere cosa possiamo fare – imprese, istituzioni e sistema camerale – per portare avanti una diplomazia della crescita volta a massimizzare i risultati.
Le imprese hanno già fatto molto. Nel complesso le aziende italiane risultano ora più internazionalizzate che in passato, con una maggiore capacità di presidiare i mercati. Le piccole imprese sono quelle che incontrano maggiori difficoltà, ma molte di loro riescono a inserirsi con successo in catene produttive globali e ad abbassare i costi attraverso l’appartenenza a reti d’imprese. E’ uno sviluppo positivo, considerato che il commercio mondiale vede ormai una prevalenza di scambi di beni intermedi e materie prime sugli scambi di prodotti finiti. Che l’internazionalizzazione passi ora anche da questo – le cosiddette Global Value Chains – è dunque assodato, e le politiche di supporto pubblico dovranno tenerne adeguatamente conto. Restano naturalmente i problemi strutturali dovuti al sottodimensionamento e alla difficoltà di accesso al credito.
Per le aziende è fondamentale anche adeguare l’offerta all’evoluzione della domanda esterna, attraverso il riposizionamento geografico verso aree e mercati non tradizionali. E’ un processo già in corso. Ho davanti a me il programma della vostra Convention e guardo la lista dei paesi cui sono dedicati i seminari maggiormente richiesti dalle imprese: Marocco, Sud Africa, Tunisia, Brasile, Turchia, Cina, India, Stati Uniti, Emirati, Germania, Corea, Serbia. A parte Stati Uniti e Germania, tutti gli altri sono mercati che possiamo definire, a vario titolo, nuovi, emergenti o da poco emersi. Il punto, naturalmente, è trovare il giusto mix tra economie mature, tuttora molto importanti, ed economie in rapida crescita.
L’adeguamento va effettuato anche sul lato dei prodotti. Le previsioni contenute nel Rapporto SACE Export 2012-2016 evidenziano un aspetto positivo, la tendenza a un progressivo upgrading qualitativo delle nostre esportazioni: si prevede infatti che il valore del nostro export crescerà più del volume, grazie ai prezzi più elevati per unità di prodotto. In questo modo le nostre aziende, che hanno difficoltà a competere sui costi, continueranno a salire nella catena del valore e si riposizioneranno nella fascia più alta del mercato. L’export di servizi mostra invece prospettive meno incoraggianti, in controtendenza rispetto al trend internazionale, a testimonianza della scarsa competitività del settore. La manifattura resta dunque l’asset più importante per il nostro paese.
L’upgrading qualitativo è importante per battere la concorrenza, soprattutto in presenza di un euro forte. Malgrado le nostre imprese debbano fare i conti con costi operativi spesso di molto superiori a quelli dei diretti competitors, è proprio grazie alla qualità del prodotto che riescono a mantenere quote di mercato. I dati Istat pubblicati ad ottobre evidenziano un avanzo della nostra bilancia commerciale nei primi otto mesi del 2013 di 19, 2 miliardi. Al netto dell’energia, l’attivo è di ben 56 miliardi di euro.
Questo dato – la bilancia depurata della bolletta energetica – mi dà lo spunto per parlare di quello che può fare la diplomazia per venire incontro alle imprese. Vorrei toccare 4 punti, cominciando proprio dall’energia.
Primo punto: l’84% del fabbisogno energetico nazionale è coperto dalle importazioni, contro una media del 53% nel resto d’Europa. Questa forte dipendenza dall’estero produce una serie di effetti: in primo luogo una bolletta energetica che pesa come un macigno sulla nostra bilancia dei pagamenti; in secondo luogo prezzi nazionali dell’energia mediamente superiori a quelli dei nostri principali concorrenti europei e tre volte superiori a quelli statunitensi, che gravano sulla competitività delle nostre imprese; in terzo luogo, una evidente vulnerabilità del nostro sistema alle fluttuazioni dei mercati, quale che ne sia l’origine. Garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e la diversificazione delle fonti è quindi questione di prioritario interesse nazionale.
Sul piano diplomatico questo significa il mantenimento di un costante dialogo politico con i produttori tradizionali (Russia, Libia, Algeria etc.) – in collaborazione con le nostre imprese del settore – ma anche la ricerca di un rapporto più stretto con i nuovi fornitori (Caspio, Asia Centrale, Africa Occidentale, Africa Australe). Il successo dell’intensa azione diplomatica sviluppata nei confronti dell’Azerbaigian per assicurare che il terminale europeo del Corridoio Sud del gas finisse in Italia, attraverso la Trans-Adriatic Pipeline (TAP), e non in Austria attraverso il progetto rivale Nabucco West, è, in questo senso, un esempio illuminante.
Quest’attività va vista anche in un’ottica di promozione commerciale, considerato che il settore energetico in Italia impiega circa 470.000 addetti e ha sviluppato tecnologie altamente competitive a livello internazionale, sia nelle tecnologie pulite e rinnovabili che in quelle tradizionali (esplorazione e produzione di idrocarburi). Il presidio diplomatico delle nuove rotte dell’energia, in un mercato mondiale in rapida trasformazione, costituisce dunque per noi una sfida cui non possiamo sottrarci.
Secondo punto: i negoziati commerciali che l’Europa conduce con molti partner, ma soprattutto il negoziato che, per le dimensioni delle due economie, riveste un’importanza fondamentale, quello con gli Stati Uniti. Il cosiddetto TTIP, Transatlantic Trade and Investment Parnership. Carlo Calenda, che chiuderà il nostro incontro, è alla guida di questo complesso processo, io vorrei limitarmi a un paio di osservazioni. Il progetto è molto ambizioso, più ambizioso di quello che Washington sta contemporaneamente negoziando con gli Stati del Pacifico, perché mira non solo ad eliminare gli ostacoli tariffari e non tariffari allo scambio di beni e servizi ma anche ad allineare i sistemi regolatori. E’ la Commissione Europea a condurre i negoziati, ma sono gli Stati membri a conferirle il mandato e a vigilare che gli interessi dei singoli sistemi produttivi nazionali siano adeguatamente tutelati.
Questo è compito della diplomazia, intesa in senso ampio, includendovi i rappresentanti di tutte le amministrazioni – nello specifico soprattutto il MISE – coinvolte nell’esercizio. Compito delle aziende è invece attrezzarsi per tempo, perché qualunque liberalizzazione comporta un aumento della concorrenza. Le aziende americane, anche grazie alla rivoluzione dello shale gas, che ha abbattuto il costo dell’energia, sono estremamente competitive e agguerrite; al tempo stesso gli Stati Uniti stanno tornando ad essere una destinazione molto interessante per gli investimenti stranieri, come accennavo all’inizio e come testimonia il fenomeno del reshoring di attività industriali. Insieme alle opportunità vi sono dunque anche dei rischi ed è bene non farsi cogliere impreparati.
Terzo punto: la partecipazione del Ministero degli Esteri sia alla definizione degli obiettivi di promozione, che vengono adottati dalla Cabina di Regia in un’ottica di integrazione delle attività di programmazione, sia all’attuazione delle iniziative. E’ un’attività che la Farnesina svolge in raccordo con tutta una serie di attori (in primis il Ministero per lo Sviluppo Economico, l’ICE, le Autonomie territoriali, Confindustria, ABI, Assocamerestero, Unioncamere, Rete Italia Impresa, nel quadro di un costante dialogo tra enti pubblici e privati molto pragmatico). Intenso è anche il rapporto con Banca d’Italia e con Cassa Depositi e Prestiti, che dopo l’acquisizione di SIMEST e SACE rappresenta oggi il polo di finanza strategica del paese.
Infine, quarto punto, c’è il ruolo svolto dalla rete diplomatica e consolare. E’ la rete, opportunamente integrata dalle unità operative dell’Agenzia ICE e dell’ENIT, che svolge una quotidiana azione di penetrazione negli ambienti politici, economici e culturali, individua gli interlocutori, fornisce stabilità ai rapporti, sviluppa un’opera di scouting e trasmette impulsi e proposte a Roma; è la rete che prepara, gestisce e cura i seguiti di tutte le iniziative che partono dal centro. Questo compito sarebbe impossibile senza l’assistenza delle Camere di Commercio, strumento efficace perché fortemente radicato nel mondo imprenditoriale locale e quindi in grado di fornire informazioni e servizi che nessun altro può fornire. Col tempo, le Camere hanno affinato la capacità di adattare questi servizi alle esigenze delle imprese, diventando uno dei soggetti di riferimento del sistema di promozione e un referente obbligatorio per le istituzioni pubbliche. Sono a conoscenza delle difficoltà che la drammatica decurtazione del contributo pubblico sta provocando, così come ne è consapevole il Ministro Bonino, e mi auguro che si riesca presto a venire incontro, almeno in parte, alle preoccupazioni manifestate dai soci e dal Presidente Simonelli Santi.
Anche perché il ruolo delle Camere di Commercio all’estero è destinato a crescere con la prevista revisione della rete diplomatica e consolare, revisione che è in parte frutto dei tagli al bilancio della Farnesina, ma che soprattutto è dettata dall’esigenza di adattare la presenza istituzionale alle nuove realtà descritte in precedenza. Riduzione nei mercati maturi, espansione in quello emergenti. Questo comporterà la chiusura di un certo numero di vecchi uffici e l’apertura di nuovi. Al termine di questo processo le Camere di Commercio potrebbero diventare, in alcune aree, il principale punto di riferimento per i nostri operatori.
Questa evoluzione dimostra che la “diplomazia per la crescita” non è uno slogan e che il Ministero degli Esteri prende il tema della promozione del Sistema Paese molto sul serio. Quanto alle risorse da dedicarvi, è chiaro che ci sono dei limiti. L’Italia confina con una vasta area di instabilità, dalla quale provengono molteplici minacce per la sua sicurezza, che vanno affrontate con tutti gli strumenti disponibili. Non può quindi permettersi una politica estera puramente “mercantilistica”, come possono invece fare alcuni Paesi del Nord Europa che hanno una collocazione geografica meno problematica. Si tratta, ancora una volta, di trovare il giusto mix.
Vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro buon lavoro.