Caro Direttore,
intervenire in Siria porrebbe rischi simili alla guerra in Iraq, più che alla guerra di Libia. Per chiunque guardi a Damasco, il punto di riferimento è Baghdad. Questo dato di fatto, unito al possesso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar-Al Assad, spiega parte della prudenza americana. Certo, si potrebbe abbattere con la forza l’erede non designato del Leone di Damasco, ma sarebbe poi difficile stabilizzare un Paese spaccato da tensioni settarie, diviso fra sciiti (nel caso siriano, alawiti) e sunniti, appoggiati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Non solo: l’opposizione siriana include, come quella irachena, fazioni legate ad Al Qaeda. In che modo appoggiare le componenti moderate della resistenza ad Assad, senza finire per «premiare» anche l’estremismo radicale?
Barack Obama esita da mesi a compiere una scelta netta: come ha dimostrato appunto il precedente dell’Iraq, intervenire con la forza militare in contesti del genere è una scelta difficile, che impegna a lungo termine sul terreno. Ed è una scelta politicamente costosa. Compierla nella situazione di oggi, a due mesi circa da elezioni americane dominate dall’economia, appare quasi impossibile. Tuttavia, come ha confermato un incontro ad Aspen fra americani, europei e cinesi, anche la linea del «non intervento» comincia a diventare insostenibile di fronte alla gravità della crisi umanitaria. Anche non intervenire ha dei costi. E la coperta usata fino ad oggi – la mancanza di un mandato da parte del Consiglio di sicurezza, dati i veti di Russia e Cina – sembra in qualche modo troppo corta. «Sono a favore di un impegno più deciso e più diretto perché non possiamo restare inerti mentre la gente viene uccisa»: Madeleine Albright, segretario di Stato ai tempi di Clinton, ha espresso in questi termini, nel colloquio di Aspen, il disagio di gran parte dei democratici, non solo dei repubblicani, per l’impotenza occidentale di fronte ai bombardamenti di Aleppo. Dopo un anno di scontri brutali, le vittime della guerra civile stanno lievitando, sono ormai molto più numerose di quelle della guerra in Libia. Vanno aggiunti centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati, in fuga verso Giordania, Turchia, Libano, Iraq.
Rompendo il dilemma fra i due estremi – impotenza occidentale o intervento militare – è possibile immaginare una «terza opzione»?
Nessuno, nell’amministrazione americana e in quelle europee, prefigura un’azione militare sul terreno. Il precedente iracheno, si è visto, funziona potentemente da freno. Ma anche una politica di «sanzioni e basta», combinata a piani di pace affidati alla mediazione della Lega Araba e dell’Onu, sembra non funzionare: in mancanza di un accordo con la Russia, che difende attraverso Damasco i suoi residui interessi strategici in Medio Oriente, una soluzione negoziata appare lontana. E ci vorrà ancora tempo perché le defezioni al vertice del potere alawita segnino un vero sgretolamento del regime di Bashar. In questo contesto, l’amministrazione Obama si sta spostando verso una politica di sostegno attivo all’opposizione che combatte Assad sul terreno, in accordo con gli alleati regionali – Arabia Saudita e Qatar, anzitutto. Parallelamente, Hillary Clinton ha cominciato a discutere con Ankara la possibilità di istituire una no fly-zone sulla Siria e zone rifugio ai confini con la Giordania. Il calcolo è che, alterando gli equilibri militari sul terreno, un accordo politico sulla successione ad Assad diventerà meno arduo: anche Mosca, alla fine, lo prenderà in considerazione. Uno degli obiettivi essenziali è di arrestare un rischio già evidente di contagio regionale, l’allargamento del conflitto al Libano, alla Giordania e infine all’Iraq.
II problema, hanno ricordato ad Aspen gli interlocutori cinesi, è che questo tipo di attivismo può finire per scivolare verso una sequenza «libica»: da un intervento iniziale limitato – e che Pechino non aveva ostacolato a New York – a una vera e propria guerra. Per la Cina, il precedente negativo è la Libia. Se oggi Pechino è iperprudente sul caso siriano, lo è per ragioni diverse da Mosca: non per esercitare una sua ultima chance di influenza in Medio Oriente, ma perché si è sentita in qualche modo «beffata», sul caso libico, in Consiglio di sicurezza. Vedremo. Intanto, con un’apertura inedita, uno dei partecipanti cinesi al dialogo di Aspen ha cominciato a parlare di «interferenza responsabile»: una sorta di diritto di ingerenza limitato, che escluda azioni militari dirette ma permetta di contenere la tragedia umanitaria.
E’ davvero realistico pensare che si possa aiutare una popolazione colpita e ferita senza farsi coinvolgere nella dinamica militare di un conflitto che non sembra avere (per ora) una soluzione diplomatica?
Il dilemma che la Siria pone alle diplomazie occidentali è questo. La risposta è tutt’altro che semplice: si tratta di capire fino a che punto e come appoggiare l’opposizione che combatte Assad sul terreno, tentando così di condizionarla e plasmarla. Solo con un impegno più attivo, verso cui l’Italia sta giocando le sue carte (umanitarie e politiche), americani ed europei avranno anche una voce sui futuri assetti della Siria. E potranno sperare di ottenere garanzie concrete sul rispetto delle minoranze, di tutte. Prima che sia troppo tardi.