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Intervento del Sottosegretario Marta Dassù alla Tavola rotonda “Farnesina, Rete Diplomatica e Imprese per la crescita del Sistema Paese”

Intervento del Sottosegretario Marta Dassù alla Tavola rotonda


“Farnesina, Rete Diplomatica e Imprese per la crescita del Sistema Paese”


(MAE,Conferenza degli Ambasciatori, 21 dicembre 2012)

È utile citare una frase di Robert Kaplan, tratta dal suo ultimo libro, The Revenge of Geography :A good place to understand the present, and to ask questions about the future, is on the ground”. Sembra ovvio ma in realtà non lo è, in un’era in cui globalizzazione e internet hanno creato l’illusione di un mondo “flat”, senza geografia e senza storia. Non è così, evidentemente: l’importanza di essere “on the ground” è sufficiente a spiegare il valore della Rete diplomatica. Ed è soprattutto lì, “on the ground”, che va costruito il coordinamento fra attori economici e istituzioni. Il Sistema Italia ha bisogno di una testa; ma soprattutto ha bisogno di gambe per diventare un sistema funzionante. Porrei, come Kaplan, alcune questioni sul futuro. Quali sono gli scenari in cui opera uno sforzo di internazionalizzazione dell’Italia che quest’anno ha in parte consentito di compensare il declino della domanda interna?


Lo scenario italiano.


· L’atteggiamento dei mercati nei confronti dell’Italia è sicuramente meno aggressivo di quanto non fosse mesi fa. Gli investitori esteri sono tornati ad acquistare titoli del debito pubblico italiano, il Tesoro continua ad avere accesso al finanziamento a lungo termine e sono timidamente riprese le emissioni obbligazionarie da parte di banche e imprese.


· Le previsioni, confermate di recente anche dal Governatore della Banca d’Italia Visco, restano tuttavia poco incoraggianti: indicano che il ristagno della domanda continuerà nel 2013, con l’attesa di un avvio di ripresa solo verso la fine dell’anno. Le imprese italiane sono in difficoltà rispetto ai loro concorrenti, anche europei, a causa dell’alto costo dell’energia, del credito, dei ritardi infrastrutturali.


· Si aggiunge l’incertezza politica. Qui, l’unico punto che vorrei sottolineare è che qualunque futuro governo, potendo disporre di un orizzonte temporale più ampio, potrà – anzi dovrà – portare avanti le riforme strutturali necessarie per recuperare competitività a livello internazionale. Nel mondo di oggi non sono infatti solo le aziende a competere, ma l’insieme del sistema produttivo nazionale. La ripartizione dei compiti mi pare abbastanza chiara: le imprese devono potenziare la loro capacità di stare sul mercato, sviluppando fattori di vantaggio comparativo come la specializzazione in prodotti ad alto valore aggiunto e l’introduzione di tecnologie innovative; lo Stato deve evitare di scaricare su di loro costi pubblici troppo elevati, rimuovendo gli ostacoli che di fatto ne limitano la competitività.


· Il recente scenario economico delineato dal Centro Studi di Confindustria conferma queste previsioni, con una Italia destinata a restare in difficoltà fino alla fine del 2013. Ma indica anche che, dopo la durezza della recessione, il recupero italiano dovrebbe essere più solido di quello di altri paesi del G8.


Lo scenario europeo.



· Lo scenario europeo si presenta per alcuni versi abbastanza simile. Permangono, all’interno dell’eurozona, squilibri di competitività abbastanza marcati. Una delle conseguenze di questi squilibri strutturali è stata la strisciante rinazionalizzazione del mercato del credito, che ha portato al progressivo deleveraging delle banche e alla riduzione del flusso di finanziamenti all’economia reale. Gli investitori sono cauti, riluttanti, in questa fase, ad effettuare investimenti in asset di lunga durata come, ad esempio, nuovi impianti produttivi. In Europa gli investimenti sono diminuiti tra il 2008 e il 2011, soprattutto nell’Europa del Sud e nel Regno Unito, con una forte contrazione nelle costruzioni, meno nel manifatturiero. Questo dato è rilevante ai fini delle successive considerazioni.


· Eppure, sul piano finanziario, l’Europa nel suo complesso si trova in condizioni migliori degli Stati Uniti e anche del Giappone: il rapporto medio deficit/PIL nel 2012 è previsto attestarsi a 3,3%, contro 8,5% e 8,3% rispettivamente di Stati Uniti e Giappone; il rapporto debito/PIL al 93%, contro rispettivamente 140% e oltre 200% ; il rapporto partite correnti/PIL europeo è pari a +1,5%, contro -3,% e +1%. Nel corso della sua recente audizione alla Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo, Mario Draghi ha condiviso la tesi che la situazione della zona euro sia meno sbilanciata, guardando ai dati sul deficit di bilancio, al debito e al livello dell’inflazione, rispetto a quella dei suoi maggiori concorrenti a livello globale. In altri termini: a certe condizioni, l’Unione europea potrebbe uscire dalla crisi come un’economia ancora competitiva.


· Questo spiega in parte perché l’Euro, pur nell’instabilità di un mercato delle valute su cui vengono scambiati l’equivalente di circa 4000 miliardi di dollari al giorno, mantiene ancora la fiducia dei risparmiatori. E’ una buona notizia, ma vuol dire anche, per le nostre imprese, non poter contare sull’Euro debole per competere sui mercati extra-europei, salvo derive imprevedibili e sicuramente non auspicabili.


· Malgrado le difficoltà menzionate, il clima generale è sicuramente migliore rispetto a soli tre-quattro mesi orsono, grazie ad una serie di progressi cui l’Italia ha notevolmente contribuito: l’accordo sul salvataggio della Grecia; la serietà del percorso di risanamento avviato a livello nazionale da molti Paesi, tra cui l’Italia; la linea di intervento della BCE; le nuove misure di governance economica adottate dagli ultimi Consigli Europei, a cominciare dal Single Supervisory Mechanism in campo bancario; le misure orientate a promuovere la crescita. Combinare disciplina fiscale e crescita è l’imperativo del presente e del futuro, come il governo italiano ha sostenuto in questi mesi.



Lo scenario globale.



· Le riforme nazionali ed europee richiederanno tempo, tuttavia, per produrre i loro effetti. L’interrogativo fondato, quindi, è se l’Ue non si stia muovendo troppo lentamente, in una fase in cui la congiuntura mondiale resta molto delicata. Secondo le stime del Fondo Monetario, l’incremento del volume degli scambi internazionali nel 2012 sarà di poco superiore al 3%, contro una crescita del 5,8% l’anno scorso e del 12,6% nel 2010. La crescita dell’economia globale sarà compresa tra il 2,5% e il 3%.


· Gli Stati Uniti sono in ripresa (anche se moderata, circa 2,5% quest’anno). Il rischio di un mancato accordo sul fiscal cliff (poco credibile del resto) non sembra impensierire troppo gli investitori, che continuano ad avere fiducia nella capacità di ripresa dell’economia americana, soprattutto ora che settori importanti come quello delle costruzioni tornano a mostrare segni di vitalità.


· La rivoluzione del tight oil and shale gas, che affrancherà gli Stati Uniti dalla dipendenza dal Medio Oriente e ne farà in pochi anni un esportatore netto di idrocarburi, gioca un ruolo importante in queste previsioni. La trasformazione del mercato dell’energia non avrà solo conseguenze geopolitiche, ma potrebbe aggiungere alcuni punti di PIL all’economia americana. In altri termini, considerate le dimensioni dell’economia statunitense e le sue prospettive di crescita, si può ritenere che gli USA torneranno ad essere il principale motore dello sviluppo mondiale, dopo aver innescato la crisi.


· In questa ottica, uno degli obiettivi della nostra diplomazia deve essere quello di favorire un common market-place tra l’Unione Europa e gli Stati Uniti, in grado di dare forte impulso alle relazioni commerciali ed economiche transatlantiche.


· I mercati emergenti completano questo rapido quadro. Difficilmente i BRICs saranno in grado di ripetere nel prossimo decennio la performance di quello precedente. Come noto, è una sigla che nasconde modelli di sviluppo diversi: il Brasile e la Russia, esportatori di energia e materie prime, sono soggetti alle variazioni dei prezzi internazionali, risentono delle numerose strozzature del loro sistema produttivo e di carenze infrastrutturali; l’India, importatore di energia ed esportatore di servizi, ha subìto un marcato rallentamento e stenta a ripartire; la Cina infine, economia di trasformazione basato sugli investimenti e l’export, sta cercando di orientare il suo modello verso un maggiore sviluppo dei consumi, di ridurre gli squilibri e l ‘eccesso di capacità, di affrontare i problemi di una popolazione urbanizzata per oltre il 50%, che invecchia rapidamente. Ha prospettive immediate migliori degli altri tre, ma anche problemi di stabilità sociale molto seri. In breve, rischia di restare vittima della “middle-income trap”.


· Il quadro che s’intravede, per il prossimo decennio, è – per riassumere – quello di una crescita modesta per Europa e Giappone, più robusta per gli Stati Uniti e per alcuni BRICs, soprattutto la Cina, ma inferiore al passato. Gli effetti si faranno sentire su tutta una serie di Paesi “clienti” che, non avendo sviluppato o non essendo in grado di sviluppare un mercato interno di dimensioni adeguate, basavano il loro sviluppo sulla domanda di questi colossi dell’economia mondiale, sulle famose locomotive.


Quid agitur?



· Questi sono, a mio parere, gli elementi per valutare le priorità dell’azione di supporto alle imprese italiane, che sempre più guardano all’estero in presenza di uno slow down, più o meno marcato, della domanda in Italia e in Europa. Nell’ultimo decennio, tutti i Paesi avanzati hanno perduto quote di mercato a favore dei Paesi emergenti. Questo è stato dovuto in parte a mancanza di competitività, ma in buona parte anche ad una insufficiente capacità di orientare esportazioni e investimenti verso i settori e le aree a rapido tasso di crescita.


· Per quanto riguarda i settori, è chiaro che l’Italia non è più in grado di competere sui costi e sui beni a basso valore aggiunto, ma deve approfittare della qualità e delle tecnologie di cui dispone, e svilupparne altre, nei settori dove ha un vantaggio comparativo e dove spesso è leader di mercato. Esistono naturalmente le quattro A – alimentari, abbigliamento-moda, arredo-casa, automazione-meccanica –, cui aggiungerei infrastrutture, energia e design, sia urbano che industriale.


· Il nostro Paese ha ancora una forte base manifatturiera, spesso sottovalutata. Nei primi otto mesi di quest’anno il nostro surplus di manufatti ha toccato 61 miliardi di euro; l’Italia è una delle cinque economie del G20, oltre a Germania, Giappone, Cina e Corea del Sud, a vantare un surplus in questo settore. Intanto l’export complessivo ha superato i 248 miliardi, tornando ai livelli pre-crisi. Per la prima volta in dieci anni, otterremo un surplus di bilancia commerciale,energia inclusa, che le proiezioni danno a circa 10 miliardi di euro.


· Per quanto riguarda le aree, è chiaro che le grandi economie restano importanti, perché sono queste economie che assorbono ancora gran parte del nostro export di beni e servizi; stesso discorso vale per il vicinato immediato (Balcani e area MENA) che non può essere naturalmente trascurato – ma va detto che qui siamo già ben posizionati e che disponiamo di tutti gli strumenti, anche politici, per sostenere le nostre aziende. Nel caso del Mediterraneo, uno dei nodi problematici è la scarsissima integrazione regionale, anche se stanno lentamente emergendo nuovi fenomeni, come la tendenza dei Paesi del Golfo ad investire capitali nell’area. Semmai, in queste aree geografiche, dobbiamo tutelare importanti interessi energetici. Direi che lo stiamo facendo, cercando di ragionare sul tema della sicurezza energetica in un’ottica di lungo periodo. La predisposizione di una Strategia Energetica Nazionale, cui hanno partecipato numerose Amministrazioni, inclusa la nostra, e il complesso negoziato che stiamo conducendo sulla Trans Adriatic Pipeline (TAP), che dovrà portare in Italia il gas del Caucaso, sono un esempio di questo approccio.


· Ci sono però altre aree con grandi potenzialità, e verso cui è ormai indispensabile guardare. Nella mia esperienza di governo – che per definizione sarebbe stata breve – ho scelto di concentrare gli sforzi su alcuni Paesi di media grandezza che avessero le seguenti caratteristiche: alto tasso di crescita, classe media in espansione, quadro giuridico e regolamentare attraente, apertura verso l’esterno, grandi progetti infrastrutturali, inclusione in progetti di integrazione regionale di ampia portata. Abbiamo individuato nei Paesi dell’Alleanza del Pacifico – Messico, Cile, Colombia, Perù – un’area di interesse, e una seconda nell’ASEAN, il raggruppamento dei Paesi del Sud Est Asiatico.


· Si tratta, in quasi tutti i casi (con l’eccezione di Indonesia e Messico), di Paesi di dimensioni non enormi; anche per questa ragione, più facilmente avvicinabili dalle nostre PMI e non solo dalle grandi aziende. Soprattutto, si tratta di Paesi che non solo dispongono di un mercato interno in crescita ma che possono aprire le porte ad un mercato regionale integrato di più ampie dimensioni. L’integrazione regionale, in questa fase di sviluppo dell’economia mondiale, sembra offrire maggiori benefici rispetto ad un processo di globalizzazione che – guardando anche all’andamento dei negoziati commerciali – appare avere incontrato i suoi limiti. Regionalismo versus globalizzazione.


· I Paesi latino-americani dell’Alleanza del Pacifico, che hanno istituito un unico mercato (il Messico, fra l’altro, è anche parte del NAFTA), costituiscono di per sé una regione economicamente dinamica. L’America Latina non è un’area omogenea e va scomposta nelle sue componenti, che peraltro interagiscono tra di loro: gli scambi commerciali, all’interno della regione, sono decuplicati in poco più di vent’anni ed è anche questo che contribuisce a spiegare il volume degli investimenti esteri (nel 2010 ha attirato 280 miliardi di dollari di capitali in entrata, pari a dieci volte i prestiti erogati dalla Banca Mondiale e dal BID).


· Le previsioni di crescita di medio periodo dei Paesi dell’Alleanza sono i più alti della regione e oscillano tra il 6% il 4% annuo. Sono economie che sotto molti aspetti presentano elementi di complementarietà con la nostra e che contano anche su Paesi come l’Italia per investimenti di qualità e per evitare il rischio di “primarizzazione” dei loro sistemi produttivi, dovuto soprattutto a una forte presenza cinese. L’ultimo rapporto presentato dall’ANCE indica che il 48% delle nuove commesse per le nostre aziende del settore è stato ottenuto in America Latina.


· Proprio insieme all’ANCE – ma anche MISE, Confindustria, ICE, Unioncamere e Assocamere Estero – abbiamo organizzato missioni in quei quattro Paesi, con delegazioni imprenditoriali selezionate sulla base di indagini di mercato, opportunità e interesse delle stesse aziende. Non missioni di sistema monstre, dunque, ma missioni mirate, in Paesi mirati, in settori mirati, acquisendo la previa disponibilità delle autorità locali ad incontrare i nostri imprenditori e discutere con loro i progetti. Credo si tratti di una formula molto concreta, da tenere presente per il futuro, e devo dire che il feedback dalle aziende italiane su queste iniziative appare incoraggiante.


· Con logica analoga è stato organizzato a Roma l’ASEAN Awareness Forum, con l’obiettivo di far conoscere in maggiore dettaglio alle aziende le opportunità di un mercato integrato di quasi 600 milioni di persone, che cresce di circa il 6% all’anno. Negli ultimi sei mesi di quest’anno le esportazioni italiane verso l’ASEAN sono cresciute di 14 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Dopo le missioni del Ministro Terzi in Vietnam, Indonesia, Singapore, Myanmar e Brunei, per il 2013 sono in programma missioni imprenditoriali in Indonesia e Thailandia.


· Interessante è anche lo sviluppo dell’Africa sub sahariana, che cresce a ritmi molto rapidi da un decennio e dove siamo ancora molto poco presenti. La proiezione delle imprese italiane in Africa si è rarefatta negli ultimi vent’anni, a seguito dell’apertura delle economie dell’ex-blocco sovietico e del decollo dell’Asia, ma è tempo di invertire questo ciclo. Sono state organizzate, nel 2012, importanti missioni africane, ma è chiaro che le prospettive di sviluppo di questa regione – energia, materie prime, mercati interni in espansione, trend demografici – meriterebbero un salto di qualità.


In conclusione, i cicli delle economie emergenti obbligano comunque a mantenere un forte grado di allerta e di flessibilità. Cosa che preclude alle imprese di diventare “statiche”, il loro dinamismo è obbligato; ma lo preclude anche alla rete diplomatica. La concentrazione può avvenire, per le ragioni che ho cercato di illustrare, nella “testa” del sistema: il MAE ha bisogno, io credo, di potenziare fortemente alcune aree prioritarie (in senso geopolitico ed economico) rispetto ad altre. E può avvenire su scala regionale: capire in anticipo i nuovi “insiemi” regionali sarà una delle chiavi per aumentare la competitività dell’Italia sui mercati esteri. Ma guardando alle “gambe”, una Rete sufficientemente diffusa resta uno dei punti di forza dell’Italia.

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