Ministro Antonio Tajani, a poche ore dalla firma di lunedì quale giudizio dà di questo primo accordo? Non è ancora una pace vera, consolidata?
Non è finita, ma sono state messe le fondamenta di un accordo regionale importante. Resta molto lavoro da fare – risponde dal Veneto il titolare degli Affari Esteri – per trasformare questa tregua in una pace duratura, ne ho parlato in una lunga telefonata col segretario di Stato americano, Marco Rubio. Io però sono ottimista, tra le parti scorgo una nuova volontà. E poi ricordiamoci, Trump vuol puntare al Nobel per la pace, a maggior ragione fra un anno. Noi come Italia siamo pronti a fare la nostra parte, sul piano umanitario, della ricostruzione della Striscia di Gaza, del consolidamento del quadro e anche sul piano militare, qualora dovesse servire. Ma siamo ancora in una fase prodromica.
Partiamo allora dall’emergenza umanitaria. Come si sta attrezzando il governo?
I camion con gli aiuti stanno riprendendo a entrare in queste ore a Gaza. Rafforzeremo l’operazione italiana “Food for Gaza”; stiamo raccogliendo per questo derrate alimentari con la collaborazione di Coldiretti, Confagricoltura e Confcooperative. Ma soprattutto c’è il fronte della sanità, da affrontare assieme alle istituzioni internazionali e anche con gli ospedali italiani. La Cooperazione allo sviluppo della Farnesina sta firmando accordi fra il Bambino Gesù di Roma e gli ospedali italiani di Amman e Krak, in Giordania. E pensiamo all’ospedale italiano del Cairo. Lo scopo è rafforzare l’assistenza ai bambini malati, agli amputati, ai feriti di Gaza, assisterli nella regione, con medici italiani e anche arabi. Abbiamo altre idee, come quella di affiancare gli ospedali di Gaza con nostri ospedali, ma vogliamo coordinarci con Paesi amici e con la Ue sia per avere maggiori fondi che per condividere uno sforzo che sarà massiccio e prolungato nel tempo.
Toniamo alla trattativa: c’è stato un fattore, un episodio determinante che ha impresso una svolta al negoziato? Forse le bombe israeliane su Doha, la capitale del Qatar, storico alleato degli Stati Uniti?
Tutto ha contribuito. Dopo aver corso il rischio di un grave peggioramento della situazione, tutti si sono determinati ad accrescere le pressioni su Israele e sui palestinesi: gli Stati Uniti e poi Qatar, Egitto e Turchia con cui ho lavorato di continuo. Certamente non hanno contribuito né la Flotilla, né le manifestazioni nelle piazze.
Non c’è, da parte del centrodestra, un eccesso di “cattiveria” verso la spedizione marittima chiusa con l’arresto e l’espulsione degli attivisti e verso i cortei in Italia, come in altri Paesi? In fondo hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Certamente lo hanno fatto. Però non si può dire che sono stati simili episodi a risolvere i problemi, anche il cardinale Pizzaballa lo ha sottolineato. Specie gli scioperi hanno creato disagi e disservizi alla popolazione italiana e non hanno aiutato Gaza. Più significativa è stata la nostra mozione sul sostegno italiano al piano di Trump, approvata in Parlamento senza un voto contrario, a mostrare la compattezza della politica italiana. Allo stesso modo daremo un nostro contributo da mercoledì a Napoli con i “Dialoghi mediterranei”.
Quali limiti vede in questo primo accordo?
La premessa è il disarmo di Hamas: è fondamentale, bisogna fare in modo che sia attuato, tutto deriva da lì. Dopo quel che ha fatto il 7 ottobre 2023, Hamas non può esser parte della futura governance palestinese.
Su Hamas non è un paradosso che, dopo due anni di una guerra così feroce, il governo israeliano abbia negoziato direttamente con Hamas, dando così una sorta di riconoscimento indiretto a questi terroristi?
La pace si fa col nemico e tra le parti in causa. Bisogna essere pragmatici in questi tornanti della storia. Poi è chiaro che servirà una nuova classe dirigente palestinese. Noi puntiamo molto sull’Anp, l’Autorità nazionale, che però deve essa stessa rinnovarsi. Stiamo lavorando anche per questo: con la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, sono state attivate 150 borse di studio per giovani palestinesi, i primi sono già arrivati. Nell’ottobre ’24, al G7 dei ministri della Cooperazione di Pescara, davanti a ministri e diplomatici libanesi, palestinesi ed israeliani, ho presentato un progetto anticipato al premier palestinese Mustafa: un finanziamento di 5 milioni all’Onu per studiare a Ramallah, con ricercatori dell’ateneo di Venezia Iuav e assieme all’Autorità palestinese, il modo per ricostruire le fondamenta politiche dell’Anp e di Gaza.
II rispetto del governo futuro del territorio di Gaza è un altro punto critico? E l’Italia vi contribuirà anche con suoi militari?
Per il territorio serve assolutamente una forza internazionale, l’ho sempre pensato. Se ci saranno le condizioni, potremmo contribuire anche con forze militari: ci sono i carabinieri già a Gerico e presto torneranno al valico di Rafah.
Il nuovo quadro cambia qualcosa per il governo Meloni sul riconoscimento della Palestina?
Accelera i tempi. Dobbiamo creare le premesse per lo Stato palestinese che dovrà essere l’approdo di questo processo e che comporta l’implicazione dei territori di Gaza e della Cisgiordania.
Su Trump, propulsore in ogni caso di questa intesa, c’è stato un eccesso di superficialità – per così dire – da ambienti che ora sono in qualche modo “spiazzati” dalla tregua?
Ci sono stati e ci sono dei pregiudizi, dovuti all’ideologia, alla tentazione perenne di “fare il tifo”. Qui però non siamo più in campo elettorale. La pace è un bene supremo e bisogna essere obiettivi, in campo internazionale, nel valutare le azioni, anche se vengono da un avversario politico. Trump ha dato senza dubbio una spallata al processo e questo gli va riconosciuto senza ombre: chi non lo fa denuncia un pregiudizio che è un limite personale.
E l’Europa? Ancora una volta è ai margini dei grandi processi internazionali?
L’Europa non è stata abbastanza coraggiosa, sì. Questa però non deve diventare una scusa per attaccarla, ma una spinta per farla diventare sempre più un soggetto politico, con una politica estera unitaria. E per avere ciò servono leader nazionali forti, ma anche dotati di visione internazionale.
Il presidente francese Macron, ora in difficoltà in patria col governo nazionale, era uno di questi?
La Francia vive una stagione complessa per la quale non c’è da gioire. Mi auguro quindi che si possa risolvere, pure qui al di là del fatto che sia un leader simpatico o antipatico. Non possiamo fare, insomma, il sorrisino alla Sarkozy, non è così che si vive in una comunità: convergere tutti verso valori condivisi e agire di conseguenza è la quintessenza dello spirito europeo.
E l’Ucraina? II presidente Zelensky ha detto che ora Trump, volendo, può fermare anche la Russia. La vede così anche lei?
La pace in Ucraina mi pare ancora lontana Spero però che si possa compiere qualche passo in avanti, tenendo presente che Putin punta sempre a conquistare nuovi territori, che vuole mostrare ai russi che non cede e che ha un problema serio di transizione dall’economia di guerra che ha messo su in questi anni e anche di gestire connazionali che, da soldati, guadagnano fino al triplo del normale.
Per chiudere veniamo al caso di Alberto Trentini, il cooperante veneziano detenuto da 11 mesi nelle carceri venezuelane. Ci sono sviluppi?
Trentini ha potuto chiamare i giorni scorsi per la terza volta sua madre e ha rassicurato sulle sue condizioni. Ci auguriamo che possa avere visite consolai in modo regolare e che possa uscire dal carcere quanto prima. Non è facile, ma stiamo facendo il possibile per arrivare al risultato.