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Dettaglio intervento

(fa fede solo il testo effettivamente pronunciato)


Non credo sia il mio compito, oggi, quello di valutare i mercati esteri. E’ stato fatto dagli interventi che mi hanno preceduta. Riprendo solo quelle che mi sembrano le tre indicazioni principali:


1. Primo, come ha spiegato in modo efficace Paolo Magri, stiamo vivendo un enorme rebalancing del potere economico mondiale. Questa è la realtà, lo sappiamo da almeno 10-15 anni. Sappiamo anche che la Cina, con attorno l’Asia, è tornata ad occupare le posizioni relative che aveva fino all’800. Qui il punto non è solo quello giustamente sollevato, e cioè che governare un mondo del genere, in cui il potere è diffuso, è molto più difficile per le economie occidentali (in un libro recente Charlie Kupchan lo definisce “No one’s world”). Il problema di fondo è se questi trends continueranno in modo lineare o no. In realtà, come Paolo Magri ha mostrato, ci possiamo aspettare nei prossimi anni, nei Brics, una riduzione dei tassi di crescita combinata a un certo aumento dell’inflazione. Il caso principale su cui interrogarsi è proprio la Cina; perché la Cina è alle prese con una fase politica molto delicata per definizione – la successione alla quinta generazione di quadri – e sta entrando in quella “middle income trap” già vissuta da altre economie in rapido sviluppo. Se fossimo a un dibattito politologico, e se non fossi il Sottosegretario agli Esteri, direi che dobbiamo cercare di capire meglio non il fenomeno in qualche modo già vecchio – il mondo dei Brics – ma il fenomeno nuovo: il mondo dei post-Brics, dei Brics potenziali (il Messico per esempio o il Vietnam), con economie occidentali che a loro volta non sono più nella situazione del 2008. In breve: quando disegniamo la strategia economica internazionale di un sistema come il nostro, la cui crescita potenziale è fortemente collegata all’export – quasi esclusivamente in questo momento di depressione della domanda interna – dobbiamo avere chiaro che i trends dei mercati emergenti non sono lineari.


2. Secondo punto: l’Italia, incluse le imprese del Nord Italia che sono le più dinamiche, continuano ad essere fortemente concentrate in Europa, come dimostrano i dati della ricerca di Assolombarda. Il totale dell’export produce poco più del 20% del PIL (la metà circa di quanto accade in Germania, ma lievemente di più che nei casi di Francia, Uk e Spagna); una quota molto rilevante di questo 20% resta in Europa. Questo aiuta a capire perché le esportazioni italiane, in crescita costante dal 2000 al 2008, abbiano poi registrato una forte contrazione nel 2009 (anno del contagio della crisi finanziaria dagli Stati Uniti al Vecchio Continente). E’ seguita, a partire dal 2010, una ripresa marcata, sia verso mercati extra-europei (Brasile e Cina) sia verso aree che gravitano nell’orbita europea (Turchia, Russia) o verso l’area transatlantica (Usa). Se guardiamo solo all’area milanese, il rapporto fra esportazioni europee ed extra-europee è cambiato in modo drastico fra il 2009 ed oggi: oggi l’Europa pesa per il 40%, il resto del mondo per il 60%. Secondo uno studio McKinsey, il dato nazionale (invece che milanese) vede ancora la preponderanza del focus europeo.


Qualunque proiezione sull’Europa, d’altra parte, indica che lo slow-down durerà, per ragioni di vario genere, incluse le ragioni demografiche. Il re-balancing geografico è quindi indispensabile. Vedremo nei prossimi mesi quanto la firma del compact fiscale, combinata alle nuove misure per la crescita, riuscirà a rivitalizzare i mercati europei. Qui, il mio punto è quello ricordato spesso da Mario Monti: abbiamo bisogno di completare il mercato unico, e questo significa fra l’altro che il nostro principale mercato di export, la Germania, deve aprirsi di più nel settore dei servizi. Aggiungo un secondo punto: il mercato nord-americano non va trascurato perché è già in ripresa e perché pesa, per le esportazioni europee, più o meno quanto il mercato asiatico. Di nuovo: la proposta Monti di un’area transatlantica più integrata potrebbe aiutare.


Per concludere su questo: lo shift del potere economico globale impone un rebalancing. Ma le imprese devono anche restare radicate in Europa (e nel vicinato: Mena, Turchia, Balcani, Russia) per una serie di motivi fra cui citerei il fatto che uno dei fenomeni preoccupanti che sta avvenendo in alcuni dei mercati extra-europei è il ritorno al nazionalismo economico, con nuove barriere – regolatorie o non tariffarie – all’importazione dai paesi avanzati. Se fossimo già in una fase di post-globalizzazione, o in una globalizzazione numero 2 molto centrata su aree regionali più integrate al loro interno ma più chiuse all’esterno, il posizionamento delle imprese italiane in Europa andrebbe visto come un vantaggio competitivo e non solo uno sbilanciamento verso il cortile di casa.


3. Vengo così al mio terzo punto. Una parte della diplomazia economica dell’Italia avviene al tavolo europeo, come ho cercato di dimostrare con i due esempi di prima.


C’è poi l’altra parte dell’appoggio all’export, che riguarda più direttamente il MISE assieme al MAE: si tratta appunto del supporto diretto all’internazionalizzazione delle imprese, in una logica – il famoso Sistema Paese – che evochiamo costantemente da decenni e di cui altrettanto regolarmente constatiamo le lacune.


Concentrerò su questo la parte finale del mio intervento. Lo faccio, per semplicità di esposizione, rispondendo a tre domande.


Prima domanda. Perché la logica del sistema paese non ha mai funzionato? Se andate a parlare con gli addetti dell’ICE (morto e resuscitato), gli operatori nazionali e locali, le imprese, le banche etc etc avrete una miriade di risposte diverse. Ve le risparmio perché le conoscete: ciascuno degli attori in gioco scarica sugli altri le responsabilità principali. Sarei tentata di dedurne che la logica del sistema paese non funziona perché l’Italia è un paese che – culturalmente, psicologicamente – non è proprio capace di fare sistema.


Se ne prendessimo atto, faremmo forse un passo avanti, nell’unica direzione che io considero razionale e possibile: una struttura di supporto alle imprese leggera, invece che pesante; concentrata su priorità geografiche e settoriali; e affidata a pochi nuovi strumenti capaci di integrare visione internazionale e supporto all’espansione del sistema produttiva italiana. La filosofia della nuova ICE è questa: l’ICE fa parte di questi strumenti, cui va combinato un braccio operativo relativo ai finanziamenti (banche, Cassa depositi e Prestiti) e un nuovo Comitato Strategico per l’attrazione degli investimenti.


La realtà la conosciamo. Le poche grandi imprese italiane non hanno bisogno di strumenti di supporto all’export; semmai, hanno bisogno di accordi fra governi su aspetti specifici (dalla rimozione di dazi, agli accordi sulla difesa, ad aspetti regolatori).


Le piccole e medie imprese hanno invece bisogno anche di quel tipo di supporto: la chiusura dell’ICE è stata certamente un errore. La nascita della nuova Agenzia è importante, quindi. Ma non risolverà i problemi se l’attività di promozione non verrà affiancata, come prima dicevo, da investimenti esteri dell’Italia e in Italia; se fra Banche e Imprese non nascerà un progetto congiunto di internazionalizzazione; se le imprese di dimensioni minori non sceglieranno decisamente di consorziarsi.


Rispetto a ciò, le strutture pubbliche hanno funzioni essenziali di organizzazione: dal mio punto di vista, la rete diplomatica all’estero – che integrerà gli Uffici commerciali – deve essere al servizio della proiezione economica dell’Italia molto più di quanto non lo sia stata fino ad oggi. Ma nessuno sforzo pubblico riuscirà in assenza di uno sforzo privato altrettanto consistente.


Seconda domanda La diplomazia economica di un paese come l’Italia quali priorità deve darsi? E’ una domanda non scontata per nessun paese, neanche per le principali potenze. L’altro giorno, a Washington, colleghi del Dipartimento di Stato mi spiegavano che Hillary Clinton ha appena organizzato un’intera giornata di discussione, con imprenditori, think tanks etc, sul rapporto fra diplomazia ed economia. Per l’America, come per l’Italia, la politica estera ha ormai un ruolo essenziale a favore della crescita. Ma in che modo esercitarlo in un sistema internazionale in cui l’unica potenza neo-coloniale sembra quasi la Cina (con il suo peso in Africa e sui mercati delle materie prime)?. E come esercitarlo nel caso dell’Italia, visto il paradosso che viviamo: la disciplina fiscale è la condizione per continuare a contare in politica estera, partendo dall’Europa; al tempo stesso, questa stessa disciplina fiscale ci obbliga a tagliare parte degli strumenti (la riduzione del bilancio della Farnesina è rivelatoria, inclusi i tagli della cooperazione) che ci servirebbero per fare diplomazia economica. Bottom up: dobbiamo scegliere, insieme al mondo economico, delle priorità, riducendole. E dobbiamo avere una struttura sufficientemente flessibile, che ci consenta di spostare risorse a seconda degli andamenti dei mercati. Questa giornata di discussione è servita a definire alcune priorità, le abbiamo sentite: meno Europa, più Asia (l’importanza dell’India nella strategia di internazionalizzazione delle imprese lombarde è indicativa), e io direi anche più Americhe. Vi dò solo un dato: Messico e Brasile hanno volumi di importazione di poco inferiori alla Spagna e alla Turchia. E importano soprattutto in settori – come il manifatturiero – in cui l’Italia ha vantaggi comparativi.


Ma le priorità non sono solo geografiche, evidentemente: si tratta di incrociare i mercati e i settori produttivi dove abbiamo vantaggi comparativi.


In estrema sintesi: se guardo a una delle mie aree di delega, le Americhe appunto, abbiamo una forte possibilità di catching up, perché si tratta di mercati in crescita e perché l’Italia è chiaramente sotto-dimensionata su quei mercati. Per farlo, dobbiamo combinare azione pubblica e privata in un programma di intervento mirato, che includa una serie di azioni (dagli accordi di diplomazia economica al sostegno finanziario alle imprese).


Terza e ultima domanda. Stiamo facendo quello che sto dicendo? Sì, abbiamo cominciato a farlo.


Abbiamo visto nel corso della mattina che nei prossimi tre anni potremo difficilmente aspettarci una crescita della domanda interna: il peso dell’export e dell’internazionalizzazione sarà ancora più decisivo per assicurare la crescita del PIL. La fotografia è già questa: a fronte di una produzione industriale che a febbraio è calata dell’1,1% e che si trova ancora di oltre il 20% al di sotto del picco pre-crisi (aprile 2008), le esportazioni italiane hanno ripreso a crescere rapidamente dopo la flessione del 2009, hanno raggiunto il livello del 2008 e lo supereranno nei prossimi mesi.


Come avete documentato, parecchie imprese – specie quelle lombarde – si sono già attrezzate e hanno ripensato le loro strategie di internazionalizzazione, passando dalla semplice esportazione a forme più complesse di penetrazione dei mercati esteri, studiando forme di aggregazione e così via.


Naturalmente, si tratta di scelte che comportano profili di rischio maggiori, rispetto alla semplice attività di export, e costi più elevati; ma è una scelta obbligata di fronte alla competizione globale. Le piccole imprese hanno problemi molto maggiori perché non dispongono dei mezzi necessari ad affrontare i mercati nuovi. La costituzione di reti di PMI e il sostegno delle istituzioni diventa fondamentale.


Il Ministero degli Esteri ne è consapevole. La Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese è stata creata proprio per mettere al servizio del sistema produttivo italiano (economico, culturale, scientifico) le informazioni trasmesse dalla rete diplomatico-consolare (ma anche da fonti esterne). Riteniamo che sia un nostro compito essenziale quello di contribuire a una strategia integrata di promozione e coordinamento dell’internazionalizzazione dell’Italia.


Naturalmente, la Farnesina non può né vuole agire da sola. La sua attività si svolge in raccordo con tutta una serie di attori, anzitutto il Ministero per lo Sviluppo Economico, le Autonomie territoriali, Confindustria, ABI, Unioncamere, Rete Italia Impresa. Non è certo un caso che la nuova ICE sia retta da una Cabina di Regia.


E’ decisivo che la nuova Agenzia per la Promozione all’estero – la nuova ICE – sia in grado di operare rapidamente, decidendo dove investire le risorse umane e finanziarie a disposizione. Come abbiamo visto, i margini per un’espansione dell’Italia nei mercati extra-europei sono ampi. I criteri da prendere in considerazione sono la dimensione dei mercati, i loro potenziali di crescita, le peculiarità della struttura produttiva italiana, la composizione dell’export per settore merceologico.


All’interno di questa strategia non per l’export tout court ma per l’internazionalizzazione, rientrano anche le missioni imprenditoriali all’estero, che sempre più spesso vedono coinvolti i Ministri: rispetto alle vecchie missioni di sistema, aumenta il peso delle missioni settoriali, sempre più ritagliate sulle esigenze dalle imprese e finalizzate a fornire a queste ultime adeguato supporto politico.


Il Ministro Terzi è appena rientrato da un viaggio in Asia, dove è stato accompagnato da un numero di imprenditori. Io stessa a metà maggio condurrò una missione di diplomazia economica in Messico, Perù e Colombia, che stiamo organizzando con Promos, Unioncamere e Confindustria.


Stiamo anche intensificando gli eventi – Business Forum, Country Presentation – volti a presentare le opportunità dei singoli contesti nazionali, con il coinvolgimento delle imprese e delle ambasciate straniere; cito per tutti la Conferenza che si terrà il 22 e il 23 marzo a Roma, dedicata ai mercati dell’ASEAN.


Concludendo, la sfida che la competizione globale pone al sistema italiano (alle istituzioni e alle imprese) può essere descritta come il passaggio fra l’export in senso stretto e l’internazionalizzazione.


Ciò significa che la promozione commerciale, per quanto necessaria, non è più sufficiente. Esistono almeno due altri strumenti di grande importanza. Anzitutto, la capacità di attrazione e di retention degli investimenti esteri in Italia, nelle varie tipologie: fondi sovrani, investimenti dei fondi pensione, fondi di private equity, venture capital, investimenti industriali. In secondo luogo, il rafforzamento degli strumenti finanziari a disposizione delle imprese per accrescere la penetrazione dei mercati ed ovviare alla sottocapitalizzazione che affligge le nostre PMI.


Due studi recenti indicano quanto l’insufficienza di crediti (o il vero e proprio credit cruch) ledano le possibilità di crescita delle nostre imprese sui mercati internazionali.


Anche guardando al caso delle imprese milanesi, con la loro dinamicità, solo le imprese medio-grandi hanno una percentuale significativa di partecipazione straniera al proprio capitale o arrivano a fatturare all’estero quasi il 50% del totale, percentuale che scende a meno del 30% per le PMI.


Affrontare questi problemi in modo strutturale, in un’ottica di lungo periodo, è quello che il Governo sta cercando di fare, coinvolgendo gli operatori del settore. Creare una Rete pubblico/priva è il presupposto di una diplomazia economica aperta, che funzioni al servizio del paese. Anche per questo, e per l’interesse delle cose che ho ascoltato, ringrazio Assolombarda e ISPI per avermi invitato a partecipare alla discussione di oggi.

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