Parigi, 25 luglio 1995: esplode una bomba nella stazione RER di Saint Michel, causando 8 morti e 117 feriti. L’attentato e rivendicato dal GIA, il gruppo islamico armato algerino. Parigi 7 gennaio 2015: i fratelli Saïd e Chérif Kouachi assaltano la redazione di Charlie Hebdo, un giornale satirico, uccidendo 12 persone tra giornalisti, impiegati e un poliziotto. Vent’anni di differenza tra i due fatti di sangue. Stessa la matrice, quella del jihadismo, il terrorismo islamico. Simili le storie di terroristi: giovani perduti, finiti nel gorgo della delinquenza e alla fine corrotti dai “cattivi maestri” del terrore.
E’ questa l’analisi in Noi terroristi, un libro di storie di ragazzi perduti (Guerini e Associati Editore) che decidono di farsi terroristi. Per rabbia per noia per passione, per vuoto, in tanti partono o commettono atti atroci. Sono figli di due mondi che non si amano: dell’islam ma anche dell’Occidente. Maturano un’insana passione per l’assoluto: meglio uccidere e morire che vivere cosi. Fuggono dal loro (nostro) mondo privo d i entusiasmo e di sacrificio. Sono figli di un’integrazione fallita, giovani di origine musulmana, nati o cresciuti in Europa, transitati per le sue anonime periferie, un cattivo rapporto con la scuola e famiglie fragili, spesso senza il padre. Svuotati e alienati. pronti per l’incontro con i reclutatoci del jihadismo. La loro fragilità interiore li ha resi prede consenzienti di un mondo parallelo e oscuro. Hanno creduto nella “redenzione”, nella “guerra santa” che tutto avrebbe cambiato, nel jihad contro “corrotti e oppressori”, in un miscuglio di mistificazioni, rivoluzione, collera e nichilismo.
Le storie dei nuovi jihadisti, quelli recentemente partiti per la Siria, sono sempre più legate a conversioni solitarie, via social network, facebook, twitter o altro. Chiusi nelle loro stanze ragazzi e ragazze -spesso adolescenti -consultano senza filtri migliaia di pagine nella rete, entrando in contatto con offerte di qualunque tipo.
Il Califfato ha fatto un ulteriore pericoloso salto di qualità verso il totalitarismo ideologico: nella narrazione elaborata ed offerta in rete, utilizza il linguaggio del web e ritorce contro le nostre società buona parte dell’armamentario post-ideologico e nichilista di origine occidentale. Secondo lo storytelling di al-Baghdadi, jihad fa rima con rivoluzione, perché «l’occidente è governato dalle banche, non dai parlamenti, questo lo sapete». Nel “manuale dello stato islamico» una delle tante pubblicazioni web di Dae’sh, si legge: “lo stato islamico è la vera rivoluzione”.
Davanti a queste storie sorge spontanea la domanda su chi ne sia responsabile. Si tratta di un problema anche “interno” alle nostre società, con ripercussioni globali. Il fenomeno della radicalizzazione violenta dei giovani non è solo legato all’islam. Il danno si verifica ad ogni latitudine. In America Latina avviene come affiliazione ai narcotrafficanti e alle maras, le gang giovanili di strada. Allo stesso modo si possono analizzare i giovani arruolati dai “signori della guerra” in Africa. Gli esperti parlano addirittura di “youth bulge”, di bubbone giovanile: laddove ci sono troppi giovani, famiglie deboli e alcune condizioni sociali, ecco nascere il problema.
La religione diviene riferimento totalizzante per identità deboli. In un video di propaganda dello “stato islamico” si dice che «l’unico rimedio alla depressione è il jihad»: parole che non si applicano all’esperienza religiosa ma psichica. Ai giovani in cerca di identità i reclutatoci ne propongono una semplice: schierarsi aderendo alla comunità dei “puri”.
Organizzazioni come lo Stato Islamico sono in realtà nuovi prodotti religiosi creati di sana pianta nel grande supermercato delle identità che è diventata la globalizzazione. L’appello ad aderirvi fa leva su un amalgama di spirito di avventura, pionierismo, romanticismo rivoluzionario e senso di giustizia che spesso anima i giovani. La manipolazione dei giovani e la loro radicalizzazione non sono una novità contemporanea. Il vuoto lasciato dalle ideologie, si riempie oggi di islam globalizzato. La notte della rivoluzione diviene l’alba del califfo.
Come reagire? Davanti a tutto questo, la dottrina dello “scontro tra civiltà” è un’arma spuntata. Non a caso è condivisa dai jihadisti. Serve un disarmo culturale che crei uno spazio di dialogo. Non significa rinunciare alla nostra democrazia e ai nostri valori, ma renderli comprensibili e comunicabili ad altre culture. Bisogna moltiplicare gli interlocutori e non abbandonare mai lo sforzo di parlarsi. Dialogo, accoglienza agli immigrati e tentativi di integrazione hanno almeno il merito di non aumentare l’odio l’incomprensione e la distanza. Occorre essere forti, avere un’idea un’utopia da contrapporre a quella dello “stato islamico”. Per conquistare “cuori e menti” in Medio Oriente e nelle comunità immigrate non basteranno denaro e forza: occorrerà trovare un linguaggio convincente. La scuola è un obiettivo per i terroristi. Gli attacchi dei Boko Haram in Nigeria, i terribili massacri di Peshawar in Pakistan e di Garissa in Kenya, ci danno la dimensione di quanto l’umile ma nobile lavoro dell’insegnante sia pericoloso per il terrorista di qualunque tipo, in specie jihadista. Se c’è un luogo sacro in democrazia, tale è la scuola. Basta questa come narrazione alternativa.