Nadia Benedetti, Claudio Cappelli, Vincenzo D’Allestro, Claudia D’Antona, Simona Monti, Adele Puglisi, Maria Riboli, Cristian Rossi e Marco Tondat. Sono nove nostri concittadini, nove vittime del terrorismo, che l’Italia non dimenticherà. Venerdì scorso, alle21,10, la nostra ambasciata veniva informata dell’attacco in corso all’Holey Artisan Bakery. A chiamare era Gian Galeazze Boschetti, marito di Claudia D’Antona.
Boschetti informava che, dopo essersi allontanato momentaneamente dal tavolo verso il giardino, aveva visto irrompere, attraverso il giardino, quattro o cinque individui armati. Verso le 21,45, quindi una mezz’ora dopo, si metteva in contatto con l’ambasciata un altro connazionale, Jacopo Bioni, chef di cucina, che attraverso la scala del retro della cucina aveva raggiunto il tetto e da lì il giardino, allontanandosi e trovando rifugio presso un’abitazione privata.
Nel frattempo, il primo intervento della polizia si era concluso con un insuccesso, con l’uccisione di due ufficiali e il ferimento di una ventina di altri poliziotti per l’effetto di lancio di granate. Successivamente, Boschetti comunicava che dalla posizione in cui si trovava, nascosto in giardino, vedeva due o tre membri del commando terroristico sorvegliare l’area, sia dal terrazzo del secondo piano che dalla sala del piano terreno, dove erano stati raccolti la maggior parte degli ostaggi, e sentiva ad intervalli irregolari raffiche di mitra.
La mattina dopo, alle 7,42 di sabato 2 luglio, è scattata l’operazione condotta dall’esercito, con il dispiegamento di quindici mezzi corazzati, due dei quali hanno sfondato la rete di recinzione e la parete d’ingresso del locale. L’intervento è durato una decina di minuti per lo sfondamento, mentre l’operazione nel suo insieme, che ha comportato naturalmente anche la bonifica (con il brillamento degli esplosivi) del teatro dell’attacco terroristico e della presa degli ostaggi, è durata circa quaranta minuti. Il riconoscimento delle vittime(delle nove vittime italiane, delle sette vittime giapponesi e degli altri) è avvenuto lo stesso sabato 2 luglio, alle 18 ore locali, nell’obitorio militare. Il riconoscimento confermava da subito che alcune vittime erano decedute per colpi di arma da fuoco, mentre per le altre il decesso era dovuto a colpi di machete inferti al collo, alla nuca e al volto. Una lunga notte di orrore e di agonia dunque, nel corso della quale l’ambasciata è stata continuamente in contatto con l’unità di crisi e quest’ultima con le famiglie delle vittime, la cui presenza nel ristorante era stata nel frattempo accertata e che, naturalmente, continuavano a sperare.
Gli autori di questo infame massacro erano giovani istruiti, appartenevano a famiglie della classe media e alcuni addirittura dell’establishment bangladescio, così smentendo – e non è la prima volta – facili interpretazioni sociologiche del fenomeno terroristico contemporaneo al quale siamo di fronte. Secondo le autorità locali, si tratterebbe di aderenti al gruppo islamico Jamaat-ul Mujahideen. Le nostre prime valutazioni che abbiamo fatto anche con colleghi diplomatici e dell’intelligence di altri Paesi, portano comunque a ritenere attendibili le rivendicazioni della strage fatte da Daesh in alcuni siti del sedicente Califfato.
Questa tragedia propone alla nostra attenzione e al nostro dibattito alcune valutazioni. Anzitutto sul carattere della minaccia, sul fatto che siamo di fronte ad una minaccia globale, che dall’Africa occidentale si spinge fino al Sud-Est asiatico, dal Golfo di Guinea al Golfo del Bengala, che ha forme diverse – Daesh, Al-Qaeda, diversi gruppi jihadisti locali – ma un comune denominatore nel la degenerazione del fondamentalismo terrorista di matrice islamista, che ha in comune anche la capacità simbolica di attrazione di Daesh.
Molti si sono chiesti in questi giorni difficili se sia una minaccia rivolta direttamente verso noi italiani; certo in questo caso le vittime sono state prevalentemente, anche se non esclusivamente, italiani e giapponesi. In altri casi i bersagli sono stati comunque bersagli identificati come “infedeli”; occidentali, stranieri, quelli che il terrorismo folle e omicida definisce “infedeli”. E spesso i bersagli – dobbiamo dircelo con altrettanta chiarezza – sono nel mucchio; si spara nel mucchio. La strage più cruenta è stata quella di tre giorni fa a Baghdad, con la morte di oltre 200 persone. Si spara quindi nel mucchio e si spara nel mucchio anche in Paesi a maggioranza musulmana.
Quindi, certo che noi siamo bersagli. Lo siamo in quanto italiani, lo siamo in quanto occidentali, lo siamo in quanto difensori dei valori delle nostre società. È però altrettanto certo che il terrorismo colpisce spesso anche in modo indiscriminato e prende a bersaglio anche Paesi a maggioranza islamica.
Credo che questa debba essere anche un’occasione per valutare le caratteristiche della risposta dell’Italia, che deve essere, io credo, innanzitutto una risposta di unità del Governo, del Parlamento, delle istituzioni coinvolte, delle forze sociali e del mondo della cultura. Quando uccidono nove connazionali, l’Italia risponde unita. E questo deve essere, credo, un messaggio molto chiaro. La risposta, oltre che unita, deve essere decisa. Dobbiamo dire con fermezza, anche se non c’è bisogno di abuso di parole, che Daesh, che il terrorismo fondamentalista, a maggior ragione dopo questa strage, non avrà tregua da parte nostra. Dacca ci dice che la risposta alla minaccia terroristica è necessaria e deve essere decisa.
Si dice che con questi attentati Daesh risponda con il terrorismo alle sconfitte che sta subendo sul terreno. Io dico una cosa molto semplice, e cioè che solo la mobilitazione internazionale per la sconfitta definitiva di Daesh sul terreno può cancellare l’attrazione simbolica che oggi è il motore principale che attiva questi attentati. Dobbiamo essere convinti di questo, perché se interiorizzassimo quasi un discorso di incertezza o di paura nel proseguire e condurre fino in fondo il contrasto a Daesh, immaginando che una certa riluttanza nel contrasto a Daesh, potrebbe risparmiare qua e là, in giro per il mondo, o nei nostri confini nazionali, ci sbaglieremmo di grosso, perché è l’esistenza di Daesh che produce l’attrazione simbolica che è alla base di queste azioni infami.
Cellule organizzate o lupi solitari, gruppi locali o cani sciolti: non sappiamo bene questo gruppo dei cinque che ha attaccato il ristorante di Dacca di quale di queste categorie faccia parte. Ma tutti spesso compiono i loro gesti criminali in nome del richiamo a questo sedicente Stato islamico. Quindi, abbattere questo simbolo resta un obiettivo fondamentale del Governo, del Parlamento e dell’Italia.
Naturalmente non basta vincere sul piano militare e l’Italia lo va ripetendo, come sapete, da mesi nell’ambito della nostra coalizione internazionale e con i nostri alleati. Non basta perché sappiamo che il contrasto alla radicalizzazione fondamentalista sarà comunque un impegno di lunga durata. Sconfiggere Daesh sarà un passo decisivo, ma non definitivo, ed è qui credo che dobbiamo offrire solidarietà e chiedere impegno ai Governi dei Paesi a maggioranza islamica e alla comunità islamica in Italia.
Offrire solidarietà, perché molto spesso sono loro gli obiettivi e i bersagli del terrorismo, e Baghdad, per citare solo l’ultima strage, ce lo ricorda. Ma anche chiedere impegno, perché, come ripete spesso uno dei leader del mondo arabo, re Abd Allah di Giordania: «Tocca a noi, a noi arabi, a noi credenti nella fede islamica battere questi infedeli». Così li definisce re Abd Allah.
Ed io mi rivolgo con questo spirito di solidarietà e di richiesta di impegno anche alla grande, vasta comunità musulmana che vive in pace, chiedendo anche a voi, anche in Italia, di impegnarvi a viso aperto, insieme a noi, contro questi terroristi che abusano della vostra religione deturpandola.
La vostra mobilitazione e il vostro impegno saranno decisivi nell’attività di contrasto alla radicalizzazione, di isolamento e di sconfitta del terrorismo.
Tornando al ricordo dei nostri connazionali, associo a loro, in questo ricordo, anche la figura di Cesare Tavella, un altro italiano, un cooperante ucciso anche lui in Bangladesh lo scorso mese di settembre. I nostri nove connazionali non erano in vacanza (ma non c’è niente di male ad essere in vacanza, naturalmente) e non erano in un nuovo Eldorado. Avevano scelto di lavorare in Bangladesh, un Paese, specie nel settore tessile, nel quale lavoravano queste nove persone, ricco di potenzialità, ma anche di enormi contraddizioni. Un Paese in cui, nel tessile in modo evidente, potenzialità di sviluppo e contraddizioni della povertà si intrecciano in modo drammatico. Basti ricordare, come molti hanno ricordato in questi giorni, il crollo del Rana Plaza nel 2013. Il crollo di un edificio sotto le cui macerie furono trovate 1.129 persone. Quasi tutti, molti di loro, lavoravano in condizioni certamente non di sicurezza in fabbriche tessili di vario genere. Quindi, essi avevano scelto un Paese e un settore nel quale era evidente l’intreccio tra grandi potenzialità, ma anche grandi difficoltà e contraddizioni sociali. E avevano fatto questa scelta in un Paese m cui da anni erano evidenti, segnalati dalle diverse cancellerie e diplomazie internazionali, rischi crescenti di instabilità. C’erano stati dei segnali premonitori, che continuano ad esserci. E c’è stato di nuovo un attentato, in occasione della fine del Ramadan, proprio in Bangladesh.
Lì avevano scelto di andare a lavorare. Alcuni per spirito d’impresa, avendo anche successo nel loro lavoro come imprenditori. Altri, semplicemente, per cercare quel lavoro che non avevano trovato nel nostro Paese. E ce lo siamo sentiti dire dai loro familiari in queste ultime giornate. Persone diverse, ma accomunate, tuttavia, da spirito di iniziativa, da creatività, da capacità di stare con gli altri, da generosità, da attaccamento alla famiglia e ai nostri valori. Abbiamo perso nove persone dotate di queste qualità. Nove italiani.