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Intervento del Vice Ministro Marta Dassù in occasione del convegno Quo Vadis Europa

· L’ultimo bollettino mensile della Banca Centrale Europea prevede un “lento recupero del prodotto nell’area euro”. Pesano le incertezze dei mercati mondiali , in particolare Paesi emergenti, ma anche la debolezza della domanda interna e prospettive poco chiare dell’export. Malgrado tassi di interesse al minimo e spread sui debiti sovrani e corporate in discesa, resta lo spettro della deflazione.


· Alla vigilia delle elezioni europee, la fiducia dei cittadini nell’Europa e nelle sue istituzioni è ai minimi storici. Nel suo discorso a Strasburgo del 4 febbraio il Presidente Napolitano ha individuato nel “peggioramento delle condizioni di vita e dello status sociale che ha investito larghi strati della popolazione”, e soprattutto nella disoccupazione giovanile, la causa principale di questa disaffezione.


· Ma la crisi non ha colpito tutti nello stesso modo. Nel 2013 il tasso medio di disoccupazione giovanile in Europa è stato del 23%, con i due estremi del 57% in Spagna e del 7,5% in Germania (dati Sole 24 Ore). Durante la crisi la disoccupazione è più che raddoppiata in Spagna, mentre in Germania è scesa del 35%. E’ il fallimento di Europa 2020, il piano che avrebbe dovuto portare a una “smart, sustainable and inclusive economy”. In queste condizioni si rafforzano le tesi di coloro che ritengono che per uscire dalla crisi si debba cavalcare la tigre del nazionalismo e del populismo.


· Il quadro internazionale vede per il momento l’Europa in difficoltà. Il Giappone, pur se con qualche incognita sul medio-lungo termine, ha ripreso a crescere con una politica economica basata sulla spesa pubblica, sul sostegno all’industria, deregulation, riduzione del carico fiscale sulle imprese. Gli Usa prevedono per il 2014 una crescita del 2,8%. Profitti corporate ai massimi livelli, ripresa degli investimenti, crollo dei costi dell’energia, reshoring di attività manifatturiere e industriali, debito delle famiglie quasi tornato al livello degli anni 90 : è un’America più produttiva quella che si affaccia all’orizzonte, tanto fiduciosa da aver cominciato a riassorbire la liquidità che aveva iniettato nel sistema al ritmo di 10 miliardi di dollari al mese. Rallentano invece i Paesi emergenti, che in questi anni maggiormente hanno contribuito a sostenere la domanda globale.


· L’Europa ha quindi difficoltà a competere. Ma un’economia non competitiva non può garantire la prosperità della sua popolazione e nel lungo periodo porta all’instabilità. La crisi, che ha avuto origine altrove, ha già in parte riportato indietro le lancette dell’orologio: frantumazione del mercato del credito, rimessa in discussione della libertà di circolazione delle persone. Di fatto, meccanismi concepiti per assorbire e neutralizzare gli squilibri finiscono, nella congiuntura attuale, per amplificarli.


· Angela Merkel affermava nel 2012 che la popolazione europea è pari al 7% di quella mondiale, produce circa il 25% del PIL globale ma paga il 50% delle spese sociali. Per uscirne, aggiungeva, occorre aumentare gli investimenti, soprattutto in ricerca ed educazione, e fare riforme strutturali. Più recentemente il Presidente Napolitano, nel discorso di Strasburgo, è tornato sul punto sostenendo che l’Europa ha bisogno di investimenti pubblici ben mirati, al servizio di progetti europei e nazionali.


· Ma il modello europeo, nella sua forma attuale, è in grado di produrre questi risultati? O va ripensato? Uno studio pubblicato dal Centro Bruegel pochi giorni fa fornisce una risposta abbastanza chiara. Dati alla mano, ci dice che il trend degli investimenti pubblici nelle economie avanzate è stato grosso modo simile fino al 2008, ma all’avvento della crisi le strade si sono separate. Gli investimenti pubblici in Europa sono fortemente diminuiti, addirittura crollati nella periferia (e in Italia), mentre in Canada, Usa e Giappone è avvenuto l’opposto. In altre parole, in questi Paesi gli investimenti pubblici sono stati utilizzati come potente strumento anti-ciclico, mentre in Europa, in occasion della più grave crisi dalla Seconda Guerra Mondiale, i rigidi vincoli imposti dai trattati – e dalla loro rigida interpretazione – hanno determinato un taglio netto degli investimenti, che ha esacerbato gli effetti della recessione, la distruzione di capitale umano e finanziario, e soprattutto ha impedito quel recupero di competitività che è essenziale in una fase di competizione globale. L’adozione di nuove e più stringenti regole – Six Pack, Fiscal Compact – hanno anzi ridotto i margini di manovra.


· L’Europa deve tornare ad investire, per essere in grado di competere sui mercati, e a creare le condizioni per la ripresa della domanda interna. In che modo? Mi sembra che, per grandi linee, gli elementi di un piano per rilanciare la competitività siano i seguenti:


· Regole più flessibili per stimolare gli investimenti pubblici nazionali. Il Parlamento Europeo ha approvato nell’ottobre 2013, a grande maggioranza, una risoluzione con cui invitava la Commissione a considerare criteri molto meno stringenti per potere realizzare investimenti pubblici nazionali attraverso programmi co-finanziati da “European Structural and Investment Funds”. Nel caso dell’Italia, non si tratta di guardare a deroghe rispetto al deficit – di cui rispettiamo i parametri, dopo i grandi sacrifici fatti. Si tratta semmai di guardare a forme di flessibilità sul debito, peraltro previste dai Trattati. In ogni caso, responsabilità nazionale e solidarietà europea dovranno combinarsi.


· Un piano di investimenti europeo, con un maggior ruolo della BEI, e la creazione di un mercato del debito europeo sufficientemente liquido, come quello che esiste negli USA. L’esistenza di un bilancio federale, negli Stati Uniti, è il motivo per cui la situazione fiscale dei singoli Stati (i quali hanno quasi per legge il pareggio del bilancio) non produce crisi sistemiche. So bene che si tratta di un argomento controverso, ma in una sede come questa, che non è una sede negoziale, mi sembra sia utile mettere tutte le idee sul tavolo.


· Di pari passo dovrebbe essere considerata l’adozione di una seria politica industriale, lungo le linee più volte indicate dal Commissario Tajani.


· Rapido completamento dell’Unione Bancaria, per spezzare il legame tra banche e debito sovrano e superare la stretta creditizia, all’origine della frammentazione dei mercati finanziari su base nazionale. Ricordo che nell’eurozona 2/3 dell’intermediazione finanziaria passa attraverso il sistema bancario, contro 1/5 negli Stati Uniti. Auspicabilmente progressi tangibili in questo settore dovrebbero essere compiuti durante il nostro semestre di Presidenza. Un sistema bancario europeo nuovamente integrato, più affidabile e più solido, renderebbe anche più efficace la trasmissione all’economia reale degli input di politica monetaria della BCE, che in questi anni ha dovuto far ricorso – per iniettare liquidità, ridurre gli effetti della stretta creditizia e frenare il crollo dei prezzi delle attività finanziarie – a strumenti originali come i programmi OMT (Outright Monetary transactions) e LTRO (Long Term Refinancing Operations).


· Completamento del mercato unico, vincendo le resistenze che ancora impediscono di fare progressi in molti settori (trasporti, servizi, agenda digitale, etc.). Nell’insieme, potremmo pensare a un’area “euro-zona” molto più integrata, con attorno l’area del mercato interno. Questa integrazione differenziata permetterebbe forse di evitare scenari traumatici sia per l’economia che per la politica estera e di difesa europea (“Brexit”) e renderebbe più semplice lo sviluppo ulteriore dell’allargamento. Parallelamente, l’Europa dovrebbe puntare al completamento del TTIP con gli Stati Uniti.


· Adozione di una politica energetica, che miri da un alto a completare il mercato interno dell’energia, attraverso la rimozione degli ostacoli e l’armonizzazione delle normative, e dall’altro a garantire un’efficace azione diplomatica nei confronti dei Paesi fornitori, per assicurare la sicurezza dei rifornimenti energetici, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la riduzione dei costi, in modo da rendere le nostre industrie, che ora pagano bollette salatissime, più competitive.


· Torno a citare, in chiusura, il Presidente Napolitano, il quale ha osservato che, se in passato la molla per porre fine ai nazionalismi economici e politici fu il timore del ripetersi di conflitti devastanti, oggi può essere invece quella di scongiurare il declino del nostro continente.

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