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Giro: “2016: davanti al disordine mondiale, la storia ci insegni qualcosa” (L’Huffington Post)

Tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini delle torri del World Trade Centre di New York che collassavano, generando una nuvola di polvere che coprì tutta Manhattan. Era il 2001 e il mondo restò scioccato dal più grande e sofisticato attacco terroristico messo a segno fino a quel momento. L’anno non era iniziato così. Al tornante del Millennio, venivamo da un decennio in cui tutto sembrava cambiato in meglio: un’epoca nuova per il mondo, in cui l’economia liberale avrebbe “come una marea, fatto salire tutte barche”. Finita l’angoscia ideologica che aveva diviso il mondo in due, portandolo anche ad un passo dall’olocausto nucleare. Finite le dispute sui vari modelli in competizione. Ora tutti potevano accedere al sogno della democrazia liberale e del capitalismo. Finita – diceva qualcuno – dunque anche la storia: restava solo qualche riottoso – gli Stati canaglia- che si sarebbe presto arreso al nuovo corso. Ma in quell’11 settembre la storia si prese la sua orribile rivincita e in poche minuti crollò un’epoca. Piombammo nel terrore, quasi allo stesso modo in cui la Grande guerra aveva messo fine alla Belle époque un secolo prima: incoscienti fino ad un minuto prima.

Cos’è avvenuto da allora? Dopo quasi 15 anni di “guerra al terrore” cosa è cambiato? Il 2001 ha aperto il tempo dello “scontro di civiltà” (libro pubblicato invero nel 1997): sembrava la reazione più facile a qualcosa che non si riusciva a capire. “Perché ci odiano così tanto?” si chiesero subito gli americani. Da dove venivano uomini talmente impregnati di odio da uccidersi per uccidere altri? Chi erano questi terroristi? La riposta più semplice consisteva nel trovare nuovi motivi di divisione, di separazione tra popoli e storie. Una riposta che trovava in un motivo esterno a sé la causa di tutto, tralasciando ogni sforzo di comprensione e di analisi. Oggi possiamo dire quanto tale riposta si sia rivelata fasulla. Dividere il mondo tra culture irriducibili, spargere diffidenza e paura tra universi e paesi, non solo non ha bloccato il proliferare del terrorismo ma anzi ha aggravato tutte le tensioni, anche quelle più nascoste.

Nel 2001 non siamo piombati insensibilmente da un tempo di pace ad una guerra senza quartiere che non avevamo voluto. Nel 2001 alcuni maestri del male hanno approfittato della generale inconsapevolezza per scavare un abisso. Sono tali maestri i migliori estimatori della teoria del clash: tutta la loro torbida dottrina si basa sulla separazione tra uomini e civiltà o sulla loro mortale lotta. Mentre termina questo 2015 ci guardiamo indietro e vediamo le rovine e le macerie causate dalle dottrine dello scontro: paura, giovani cresciuti nelle nostre città che si sottomettono ai maestri del terrore, razzismo, disprezzo per il diverso, ghettizzazione, separazione… Soprattutto guerre, tante, troppe guerre: solo attorno a noi, nel Mediterraneo e poco più in là, quattro Stati ormai finiti (Siria, Libia, Iraq, Yemen), centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e rifugiati, gente che scappa, dolore, città distrutte, convivenza quasi uccisa, cristiani d’Oriente e altre minoranze straziate e costrette a abbandonare tutto… una guerra mondiale a pezzi come l’ha chiamata papa Francesco.

Se nel 2001 eravamo incoscienti, in questo scorcio di 2015 non lo siamo più. Nel 2001 non ci eravamo resi conto che ciò che valeva per una parte di mondo (la nostra) non valeva per altri; che troppi erano le fratture, le sofferenze, le distanze ancora presenti. Soprattutto troppe le crisi non risolte, per le quali “il vangelo della competitività” non serviva a nulla. Non avevamo compreso che la fine dell’universo sovietico di dieci anni prima aveva lasciato un grande vuoto che non si poteva riempire solo con l’avvento del liberismo. Nel 2001 siamo caduti nella trappola di sentirci come traditi da una parte di mondo che non era pronta a credere alla superiorità del sistema occidentale. Noi ci crediamo, sappiamo che la democrazia liberale è stata una difficile conquista della nostra civiltà, ma non per tutti è così: infatti la democrazia non si impone, casomai si compone.

Oggi, quasi nel 2016, non possiamo permetterci la medesima ignoranza e inconsapevolezza. Aver risposto al terrore con la guerra, non solo ha incendiato di più certe aree – penso in particolare il Medio Oriente ma anche all’Africa – ma si è rivelato inutile e dannoso. Dopo questi anni possiamo dirlo con un’analisi fattuale: la guerra non serve, non si è rivelata lo strumento adatto per crisi multidimensionali che hanno bisogno di ben altro trattamento. Naturalmente nemmeno il non far nulla è un’opzione valida. Cosa fare dunque?

Chiudendo quest’anno ci dobbiamo porre una domanda scottante – e dobbiamo porla alla politica: quali nuovi strumenti si deve dare la comunità internazionale per affrontare il disordine contemporaneo? Si tratta di una domanda difficile ma occorre trovare almeno un inizio di risposta. Una cosa è certa: le guerre inutili e dannose di questi 15 anni sono state fatte senza avere una politica a loro sostegno, senza un chiaro obiettivo. Anzi: ci si è rassegnati all’idea che la guerra sia inevitabile. Questa convinzione rappresenta una maledizione per popoli interi, abbandonati alloro destino. Occorre uscire da tale maledizione con più cuore e più intelligenza. Bisogna sforzarsi di pensare a come riordinare il Medio Oriente, come risolvere il conflitto che ha distrutto troppi paesi, come mettere le organizzazioni del terrore con le spalle

al muro. Queste ultime approfittano delle nostre divisione e si nutrono di guerra e di violenza: non possiamo più cadere nella loro trappola. È necessario rispondere con una politica che può uscire solo da un compromesso – certo difficile – tra potenze coinvolte, grandi e medie. In Medio Oriente innanzi tutto necessitiamo di un nuovo patto tra Stati che tolga al terrorismo ogni alibi. La prima risposta è quindi: negoziare, mediare, trattare fino a che si giunga a una ragionevole pace. Solo allora potrà essere efficace un intervento di protezione internazionale che sia legittimato e accettato, non visto come un’intrusione. C’è uno scandalo che non si può celare: per la guerra di Siria tutto questo non è stato fatto da quasi 5 anni. Usa, Russia, Europa, Turchia, Iran, Paesi arabi del Golfo, Egitto ecc. non hanno voluto negoziare, si sono ignorati, hanno – chi più chi meno – cercato di fare i propri interessi. Cosi i siriani hanno subito un’atroce guerra, divenuta una fornace che ha prodotto molti più terroristi di quanti ne avessimo prima. Per l’Iraq è lo stesso fin dal 2003, così come per nuova la terribile guerra in Yemen che sta avendo gli stessi effetti. Solo per la Libia si accende ora una piccola luce di speranza: si è negoziato – con molti errori – ma almeno esiste un abbozzo di accordo.

Alla fine di questo 2015 siamo più coscienti che le crisi non vanno lasciate marcire perché divengono una maledizione. Ciò vale ovunque: in Africa, in Asia, in Europa, in America centrale. Non si può cedere alla convinzione che si possa convivere con la violenza. Un chiaro pericolo viene dalla crisi in Ucraina; poi ci sono le vecchie e nuove guerre africane; le crisi fomentate dal narcotraffico in America centrale. Senza dimenticare antiche ferite ancora aperte, come in Terra Santa. Nessuna salvezza verrà da modelli economici o da innovazioni tecnologiche se non ci sarà questa forte volontà politica comune di risolvere le guerre e le crisi. Se non si possono risolvere subito, almeno di gestirle: se la guerra mondiale è a pezzi, almeno costruiamo consapevolmente una pace a pezzi.