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Giro: “Cooperazione, così cambiamo il paradigma” (Democratica)

Un’Italia che non coopera declina. È questo lo spirito con cui i Governi Renzi e Gentiloni hanno guardato al settore della cooperazione internazionale dopo la riforma di marca PD approvata nell’agosto 2014. Una delle risposte da dare al paese era fare un salto: cooperare come indice dell’estroversione internazionale del nostro paese. Con la nuova legge 215 sono venute nuove risorse: oggi non siamo più l’ultimo paese del G7 e dell’UE in termini di aiuti, ma il 4° , con lo 0,27% del PIL. Lo 0,30 sarà raggiunto prima del previsto.

Un’inversione di tendenza anche in termini di visione che ha ridato dignità agli attori della cooperazione, vecchi e nuovi: ONG, diaspore, enti locali, imprese, terzo settore ecc. Il dibattito attorno alla cooperazione oggi esiste ed è vivace, intrecciato specialmente con la questione delle migrazioni. Lo avevamo detto: se l’Italia non si interessa al mondo, il mondo certamente si interesserà all’Italia. È ciò che è avvenuto, a dimostrazione che non basta chiudere gli occhi perché la globalizzazione non ti raggiunga, con il suo bagaglio contradditorio di minacce ed opportunità. Ma per la destra la questione migratoria è più una polemica ai fini interni, manipolato per far leva sulla paura, piuttosto che un tema da gestire con lungimiranza. Noi ci siamo confrontati con la sfida dell’ “aiutarli a casa loro”. Concretamente. Molti hanno del mondo visto solo come minaccia, sognano un’Italia vintage; altri parlano di “inversione etnica” e disquisiscono di “razza bianca”; altri ancora accusano il mondo delle ONG di “guadagnarci” (vedi la questione “taxi del mare”). Noi crediamo invece che chi si cimenta con il difficile impegno dello sviluppo è degno di tutto il nostro rispetto. E’ la parte migliore del nostro paese e dell’Europa: quella di chi non si arrende davanti al dramma ma prova ad entrare negli inferni di questo mondo, a trovare soluzioni. Ma non basta: c’è la sfida di avere impatto, cambiare la prospettiva di futuro per i giovani africani o mediorientali. Per questo la nostra cooperazione è cresciuta, uscendo fuori dall’ordinario. Per rispondere alla domanda sullo sviluppo dell’Africa sono nate nuove interlocuzioni: da una parte quella con il settore privato e le imprese, dall’altra con le diaspore e le collettività straniere in Italia. E’ emersa una nuova coscienza: per aiutare davvero l’Africa, occorre fare in modo che vi si creino opportunità di lavoro. In altre parole: per sfuggire allo poverty trap l’Africa deve produrre. Qui si connettono gli interessi della cooperazione con quelli del nostro settore privato (specie le PMI): creare lavoro in Africa e internazionalizzazione delle imprese sono due aspetti che possono andare insieme facendo saltare i vecchi steccati ideologici che dividevano ONG e imprese. Aiutarli a casa loro ed aiutarsi assieme. Il difficile negoziato a Bruxelles sugli investimenti per lo sviluppo ne è la prova concreta con la nascita dell’External Investment Plan, un’idea italiana. In altre parole: non bastano gli aiuti, servono investimenti. Abbiamo riempito un vuoto di idee con un pensiero. Le risorse in più potranno funzionare perché abbiamo rimesso in movimento idee, riflettendo su come l’Italia potesse fare la sua parte per rispondere efficacemente alle sfide della povertà, delle diseguaglianze, della sicurezza e della pace. I tempi non sono facili e i venti della xenofobia soffiano in Europa e anche nel nostro paese. Ma siamo convinti che cooperare sia la cosa migliore da fare: porta in sé lo “spirito unitivo” di cui parlava La Pira.

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