La distruzione sistematica da parte dell’Isis del patrimonio archeologico e culturale dell’umanità evidenzia che la sua protezione e tutela diventa sempre più un tema centrale a livello globale. Anche perché il dialogo tra le culture è una delle forme più potenti di diplomazia e “i canali culturali nei momenti difficili sono gli unici che permettono dei contatti diplomatici”. Lo hanno spiegato alla Redazione Multimediale della Farnesina e al Velino/Pei News i professori Andrea Bruno e Michael Jung – il video.
Il primo è architetto e consigliere per la divisione culturale dell’Unesco per l’Afghanistan; il secondo è il curatore della sezione islamica e sud arabica del Museo d’Arte Oriente di Roma. “Il museo è il punto di arrivo degli oggetti mobili che girano per tutto il mondo e a un certo punto arrivano e si fermano – ha sottolineato Bruno -. Il museo è come una banca e gli oggetti presenti al suo interno sono come i lingotti in un caveau. Tali devono rimanere, rispettati continuamente. La conoscenza del passato è fondamentale per vivere il presente e immaginare il futuro”. “Queste missioni che noi facciamo – ha aggiunto Jung – hanno anche una grandissima importanza politica e umanitaria, non solo dal punto di vista strettamente architettonico, archeologico e storico. Creiamo una scuola, una rete di amicizie, di conoscenza, che rimane anche dopo che siamo andati via”.
Nel 2014 il ministero degli Esteri ha sostenuto oltre 180 missioni italiane di ricerca, scavo e restauro
La conferma viene direttamente da Bruno, il quale racconta che “quando nella vita sono stato portato in Afghanistan e ho trovato il minareto di Jam in mezzo a queste montagne, toccato da nessuno se non dal passaggio del tempo, ho lavorato con alcuni locali. Venti anni dopo li ho ritrovati, rimasti sul posto, e sono venuti di nuovo con me a Jam nel 1999. Per il resto della loro vita hanno continuato a far quello”. “Il fatto che noi diventiamo messaggeri di amicizia – ha proseguito Jung -, va oltre al piano economico. Non è una cosa monetizzabile o commerciabile. Aiuta loro ma anche noi a trovare una certa identità ed è una cosa molto importante del nostro lavoro”. In questo contesto, la Farnesina è molto attiva, anche grazie a un intensa attività della Cooperazione allo sviluppo. Nel 2014 il ministero degli Esteri ha sostenuto oltre 180 missioni italiane di ricerca, scavo e restauro. Un impegno in cui l’Italia esercita un ruolo fondamentale per rafforzare i legami ancorati nelle identità di quei paesi custodi di una straordinaria identità di arte, storia e cultura.
Perciò, lo scempio di cui si sta macchiando il Daesh ma anche altri soggetti “non deve avvenire – ha aggiunto il curatore, che collabora con il nucleo Ntpca dei Carabinieri per identificare i reperti rubati -. Non può avvenire che qualcuno cominci a distruggere qualcosa che faticosamente, insieme, è stato scavato, restaurato, conservato ed esposto per le generazioni future. Loro e nostre. Sarebbe utile un assetto a livello sovranazionale, che operi nell’‘anno zero’. Quando un conflitto è appena finito, per mettere al sicuro ciò che è rimasto e prevenire altri saccheggi, nonché per evitare ricostruzioni frettolose”.
“Ricominciare da zero”
Ma non sono tutte rose e fiori. “Noi a Jam alla fine degli anni’70 avevamo fatto un ponte per attraversare il fiume, una piccola casetta dove vivere e dei barrage per proteggere la base – ha ricordato Bruno, in Afghanistan dagli anni ’60 e con oltre 30 missioni -. Sono tornato nel 1999 e ho trovato tutto distrutto. Eppure abbiamo ricominciato da zero. L’importante è non interrompere le cose”.
Come nasce la consapevolezza di voler intraprendere questa “carriera”? “Quando avevo dieci anni – ha spiegato l’architetto torinese – era appena scoppiata la guerra e un certo giorno la mia casa è stata bombardata. Ho perso tutto, ma cercando in mezzo alle macerie ho trovato dei giocattoli, delle memorie. In quel momento ho capito quale sarebbe stata la mia missione. Poi, quando sono andato in Afghanistan, ne ho avuto la conferma”.
Immagini e reperti
“Da piccolo – gli ha fatto eco Jung – vivevo in Germania e girando vidi una serie di reperti. Chiesi quale fosse la loro provenienza e mi fu detto che erano dei Romani. A quel punto ho deciso che volevo capire”. Questo straordinario lavoro o meglio, missione, porta anche dei frutti inattesi. “Quando ho mostrato alla governatrice di Bamyan, una donna di 45 anni molto in gamba, le foto che avevo fatto negli anni ’60 – ha detto Bruno – è scoppiata a piangere perché aveva rivisto delle cose che aveva ammirato da bambina e che non c’erano più”. “Mi ricordo che al museo è venuto un ragazzo di Ghazni – ha aggiunto Jung – che si è meravigliato delle foto e dei reperti che noi abbiamo di alcuni minareti, restaurati dalle missioni italiane. Gli ricordavano la sua prima infanzia ed è stato molto felice perché erano ben conservati e trattati con amore e con rispetto per la loro cultura. Dopo la visita, ha detto che era la prima volta che si sentiva orgoglioso del suo passato”.
Peraltro, anche uno strumento di guerra può diventarne uno di pace, di civiltà. Lo ha ricordato concludendo il professor Bruno mentre mostra una foto di “un carro armato sovietico, distrutto dai mujaheddin sui bordi di un torrente, servito per fare una spalletta a un ponte realizzato con dei travi di legno. Solamente quando uno strumento di guerra sarà trasformato in un motivo di pace, allora si potrà cominciare a essere ottimisti”.