Questo sito utilizza cookie tecnici, analytics e di terze parti.
Proseguendo nella navigazione accetti l'utilizzo dei cookie.

Preferenze cookies

Dettaglio intervento

(fa fede solo il discorso effettivamente pronunciato)


Vorrei complimentarmi con tutti i promotori di questa splendida iniziativa. Grazie in particolare al sostegno di Finmeccanica e alle intelligenze dello IAI, dell’ISPI e di Nomisma che hanno scritto il rapporto che avete appena illustrato.


Sono molto lieto di partecipare a questo evento per due motivi: perché il rapporto contiene suggerimenti molto utili; e perché in questo momento critico per il Paese e per l’Europa è necessario chiedersi qual è l’Italia e l’Europa che vorremmo e che dovremmo avere. La risposta a questa domanda deve partire dalla considerazione, svolta nei giorni scorsi dal Presidente Napolitano, che in un continente interconnesso come non mai – dall’economia al diritto – la politica è rimasta nazionale.


Tutti, credo, avvertiamo l’esigenza di una visione coraggiosa, che vada oltre gli egoismi nazionali e gli interessi di parte; una visione con la quale leader e partiti politici sappiano proporre e guidare, più che seguire con inerzia gli istinti populistici. Vogliamo farci allora promotori di una dinamica nazionale europea – come l’ha definita Ernesto Galli della Loggia – che alimenti la dialettica europea e ritrovi lo slancio ideale dei Padri fondatori. Anch’io punto quindi, come indica il rapporto, a “un’Europa più forte e più coesa”, nella consapevolezza che la realizzazione di tale prospettiva unitaria significherebbe più potere e influenza nel mondo globalizzato anche per il nostro Paese.


Fatta questa premessa, vorrei riflettere sui due temi fondamentali per definire l’Europa e l’Italia che vorremmo: quelli della sicurezza e della crescita.


1. Sicurezza. In un editoriale pubblicato alcuni mesi sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco avvertiva i lettori di tale esigenza. “Puoi anche non curarti della politica internazionale – scriveva -. Sarà comunque lei a scovarti e a occuparsi di te”. Questa frase sottolinea l’impatto diretto della politica estera nella vita quotidiana di ogni cittadino. Viviamo in un mondo che cambia, come indica il titolo del rapporto. Un mondo in cui sono emersi nuovi attori globali e la popolazione continua a crescere: siamo sette miliardi e, entro il 2025, saremo più di otto miliardi.


Tali profonde trasformazioni stanno generando sfide molto più complesse per la sicurezza. Le minacce sono sempre meno aggressione territoriali e sempre più le limitate risorse energetiche e idriche, le migrazioni di massa, il terrorismo, la criminalità internazionale, ma anche l’esigenza di affermare una coscienza democratica e rispettosa dei diritti dell’uomo. Nessuno Stato può fronteggiare da solo queste sfide, pena l’irrilevanza dei suoi sforzi. Nel contempo, toccano tutti le criticità dei processi di transizione nel Mediterraneo, dell’instabilità del Sahel e del Corno d’Africa, del dossier nucleare iraniano e del mar meridionale cinese. Non si può essere indifferenti a tali questioni. Altrimenti sarà la politica estera a scovarci e a occuparsi di noi quando meno ce lo aspettiamo.


In questi dieci mesi alla guida della Farnesina ho cercato di sfruttare al massimo il moltiplicatore di influenza che dovrebbe assicurare l’Unione Europea. L’UE ha avviato ben ventiquattro missioni di pace con il contributo di risorse, esperienza. Ma occorre un salto di qualità: in primis, per una vera politica di difesa. Ce lo chiede il sentimento nazionale europeo e anche i nostri alleati, secondo un approccio complementare con la Nato che eviti costose duplicazioni.


Questa è anche una missione dell’Italia. Come ha detto il Presidente Napolitano, “la massima ambizione di un paese come il nostro non può che essere quella di dare un impulso e un contributo incisivo e di qualità al crescere di una politica estera e di sicurezza comune europea, come tratto distintivo e parte integrante di un’autentica Unione Politica”.


Su come raggiungere questo ambizioso obiettivo, concordo con le conclusioni del rapporto: la strategia italiana deve puntare sul “coalition building”, ossia sulla capacità di farsi ascoltare dagli altri partner, grandi e piccoli, e di coinvolgerli. Forse il rapporto è ingeneroso quando sostiene che “questa tattica è spesso mancata al nostro Paese”; ma in un sistema multilaterale i risultati si misurano dalla capacità di aggregare altri partner alle nostre scelte.


Con questo spirito ho iniziato insieme ad altri tre colleghi un percorso di riflessione volto a dotare l’Europa di una Strategia Globale di sicurezza. Fin dall’inizio, con lo svedese Carl Bildt abbiamo coinvolto Polonia e Spagna e think tank dei quattro Paesi, tra i quali l’Istituto Affari Internazionali. Catherine Ashton ha poi tenuto a battesimo l’iniziativa, che auspico sia capace di integrare, aggiornare e potenziare l’esistente Strategia Europea di Sicurezza, adottata nel 2003.


Ho seguito lo stesso metodo di coalition building nel Gruppo di riflessione sul futuro dell’Europa costituito su iniziativa del Ministro tedesco Guido Westerwelle e che riunisce 11 Ministri degli Esteri. Il Gruppo ha adottato l’altro ieri a Varsavia il rapporto finale dopo sei mesi di lavoro. Il confronto tra il documento italiano e il rapporto conclusivo adottato dal Gruppo fornisce la misura di quanto significativo è stato il nostro apporto. E’ ripresa integralmente la nostra analisi in base alla quale l’Unione necessita di più integrazione tra gli strumenti dell’azione esterna.


Il rapporto richiama inoltre l’esigenza – che ho voluto manifestare – di inquadrare in una visione organica gli strumenti PESC-PSDC e quelli di prevalente competenza della Commissione, come la politica commerciale, di allargamento e di vicinato, l’aiuto allo sviluppo, i negoziati sul cambiamento climatico, l’approccio ai flussi migratori. Questo obiettivo dovrà essere perseguito dando piena attuazione al ruolo di coordinamento dell’azione esterna affidato dal trattato di Lisbona all’Alto Rappresentante.


2. Crescita. La crisi del debito sovrano ci ha posto di fronte a una realtà che forse qualcuno credeva di poter ignorare. Il trasferimento alla Banca centrale europea di sovranità nazionali nella gestione della politica monetaria avrebbe dovuto essere affiancato da una governance condivisa in materia di politiche di bilancio. Ciò non è accaduto ed è una delle ragioni principali degli squilibri tra i processi di crescita dei Paesi della zona euro.


Condivido quindi pienamente l’obiettivo indicato dal rapporto oggi in discussione di “un coordinamento di tutte o quasi le politiche economiche sino ad adottare in ambito UE un vero e proprio Governance Compact per l’economia”. La luce verde della Corte Costituzionale tedesca all’ESM è un importante segnale; di come le decisioni della BCE e l’esito delle elezioni olandesi.


In questi ultimi mesi, l’Italia è stata ispiratrice della ripresa di uno slancio verso una comune governance economica europea. L’Europa sta ripartendo. E l’Italia non dovrà più seguire, ma trainare. Per continuare a essere credibili problem solvers, occorre però – come ammette il rapporto – fare prima “i compiti a casa”, realizzare le riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno, come in gran parte abbiamo già fatto.


Per troppo tempo, in passato, ci siamo arenati in veti incrociati che hanno impedito di cogliere le occasioni che proponeva un mondo sempre più allargato. Dobbiamo ora proseguire per sciogliere altri concatenanti nodi. Non ce lo possiamo più permettere. Sciogliamo quei nodi che hanno soffocato la nostra economia e intaccato la nostra credibilità!


Mi limiterò a fare tre esempi.


1) I dati sull’afflusso d’investimenti dall’estero: nel 2010 l’Italia ha assorbito solo l’1,8% degli investimenti esteri mondiali contro il 3,5% della Germania, il 5,3% della Francia, il 5,7% del Regno Unito, il 18% degli Stati Uniti. Per contribuire a modificare la tendenza, ho potenziato in ogni possibile modo il carattere di “ministero economico” della Farnesina, chiedendo alla rete diplomatica di individuare nuovi investitori, stimolarne l’interesse verso l’Italia, di valorizzare i provvedimenti del Governo per migliorare il clima di affari, a partire dalle ampie misure di semplificazione amministrativa. Ho inoltre avviato, insieme al collega Passera, un’azione di sistema con la Cabina di regia.


Per chiedere agli stranieri di portare la loro ricchezza in Italia, occorre però lavorare ancora molto. Quanti investitori esteri hanno rinunciato a venire nel nostro territorio a causa dell’incertezza di una miriade di norme e farraginose procedure amministrative? E quanti sono stati dissuasi dal rischiare i propri capitali a causa della diffusa percezione della corruzione?


Per questa ragione, il Governo Monti ha avviato un’intensa opera di semplificazione amministrativa e di delegificazione a beneficio dei cittadini e delle imprese. E per la stessa ragione, una legge anticorruzione è un altro passo essenziale per aumentare la competitività del Paese. Secondo stime della Banca Mondiale, richiamate nei giorni scorsi dal Ministro Severino, la crescita del reddito potrebbe essere superiore del 2-4% con un’efficace lotta alla corruzione.


È inaccettabile che l’Italia, culla del diritto, sia al 69° posto su 180 Paesi censiti nel Corruption Perception Index di Trasparency International. Tale indice soffre di sicuro di molti stereotipi su di noi, ma è un monito serio sulle conseguenze negative che alcuni fenomeni hanno sull’immagine del Paese, da danneggiare chi lavora ogni giorno per esportare e creare occupazione.


Il secondo esempio è tratto dal libro di Acemoglu e Robinson, Why Nations Fail. Gli autori indicano nelle istituzioni inclusive e nella mobilità sociale i fattori determinanti dell’ascesa della Repubblica di Venezia. Grande influenza ebbe il “contratto di commenda”, in virtù del quale uno dei contraenti dava all’altro capitale in denaro o in merci, con l’incarico di trarne frutti per dividerne poi il lucro: in questo modo chi non aveva capitale poteva rischiare, arricchirsi e rivendicare anche rappresentatività politico-istituzionale. Secondo gli autori, il declino della Repubblica iniziò invece con la decisione di abolire tale tipo di contratto e con la “Serrata”, il provvedimento con cui la carica di membro del Maggior Consiglio diventò ereditaria. Non so quanto la teoria sia fondata, ma è certo suggestiva.


L’Italia può imparare dalla storia di Venezia? Per una crescita duratura, si deve premiare il merito, consolidare le istituzioni, remderle integre e credibili, e rimettere in moto l’immenso potenziale di inventiva, e creatività degli italiani. Queste caratteristiche forgiano l’identità nazionale e hanno segnato il nostro cammino di paese con orizzonti globali. Esse devono guidare anche la nostra politica estera. Perché, come scriveva Silvio Fagiolo, “è il senso della propria identità, ancor prima che gli interessi specifici e contingenti, a orientare l’azione esterna di una nazione”.


Un terzo e ultimo esempio di gap da colmare è quello relativo alle autostrade informatiche, al libero accesso ai dati, alla condivisione della conoscenza. Esistono grandi spazi di miglioramento per ridurre il nostro divario rispetto all’Europa. Nel nostro Paese, milioni di cittadini e molte imprese sono esclusi dal collegamento veloce a Internet garantito dalla tecnologia a banda larga, che non è contemplata dalla legislazione italiana come obbligo di servizio. Milioni di famiglie italiane non hanno un collegamento web e solo una famiglia su 3 possiede internet in banda larga, con il risultato che in un mondo interconnesso le autostrade informatiche si bloccano ai confini del nostro Paese.


Per molte aziende italiane, specie le più dinamiche e innovative con partnership in Italia e all’estero, la banda larga è una vera e propria necessità per competere; ma ancor’oggi molte aree sono penalizzate, è impossibile scaricare velocemente non dico un video, ma anche solo un documento in PDF.


Rispecchiando le nostre tradizioni, esperienze e sensibilità, la politica estera dell’Italia che vogliamo deve esprimere i valori della nostra identità nazionale. Un’identità che poggia su un immenso patrimonio culturale, giuridico e scientifico, sull’apertura al mondo e il dialogo, sullo spirito imprenditoriale e l’integrità morale, sul merito e la responsabilità, e su quei valori di democrazia, diritti e libertà che ci hanno permesso di essere tra i Padri fondatori dell’Unione Europea.


Sono i valori di identità nazionale ci spingono ora a guidare con coraggio il processo verso un’unione politica dell’Europa per garantire la sicurezza, rilanciare la crescita e difendere gli interessi dell’Italia. Grazie.