Caro direttore,
se questi giorni sono l’annuncio dell’anno che verrà, l’Europa navigherà davvero in acque turbolente. E al centro del disordine sarà più che mai il Mediterraneo. Italia in prima linea, dunque. Per ragioni storiche, geografiche, economiche e culturali. Chiedersi se le scelte del Governo siano all’altezza della sfida, come ha fatto ieri Angelo Panebianco, è legittimo, anche perché non mancano certo gli interrogativi in primo luogo su come affrontare la sfida del terrorismo.
Parto dai due temi definiti da Panebianco «errori strategici». Il primo consisterebbe nell’insufficiente solidarietà alla Francia colpita dal terrorismo. Così non è stato. La nostra solidarietà, a gennaio come a novembre, è stata totale e ha coinvolto, oltre al Governo, molta parte della società italiana. Non conosco richieste francesi a cui l’Italia non avrebbe corrisposto. E non vorrei che indicando questo presunto errore, che non c’è stato, si voglia piuttosto riproporre l’immagine di un’Italia che sarebbe riluttante nel contrasto al terrorismo mentre i nostri alleati sarebbero convinti interventisti guidati da piccoli Churchill. Panebianco sa che non è così, che i nostri militari sono tra i più impegnati — e apprezzati — nell’arco della crisi che va dal Golfo di Guinea al Pakistan. Se ad esempio la coalizione anti Daesh, il cui vertice si riunisce tra meno di un mese a Roma, ha recuperato terreno in Iraq il merito è delle forze irachene e curde, ma anche dei tre o quattro paesi come l’Italia che li armano, li addestrano e contribuiscono a una gestione non settaria delle aree liberate. È vero invece che il Governo ha particolarmente insistito sull’importanza delle dimensioni diverse da quella militare nella lotta al terrorismo. Non lo considero un errore. Non ho alcuna indulgenza verso interpretazioni sociologiche (del resto alcuni degli attentatori erano tutt’altro che «poveri») ma ne ho ancora meno verso chi tuttora predica l’illusione di risolvere con qualche brillante azione militare la sfida che abbiamo davanti. Paghiamo ancora, dopo 15 anni, le conseguenze di guerre lampo che avrebbero dovuto cancellare la minaccia terroristica. Cancellarla sarà l’impegno di una generazione. Militare, certo. Diplomatico, come in Siria o in Libia. Di informazione. Di cooperazione con i paesi la cui stabilità è a rischio. E certamente culturale. So che non abbiamo a che fare con «i dannati della terra» 50 anni dopo Frantz Fanon, ma è certo che la tremenda soggettività del fondamentalismo islamista va sconfitta isolandola ad ogni livello nei paesi islamici e in quelli europei. Sì, anche nelle nostre periferie.
Vengo agli interrogativi strategici. Il principale è come affrontare, in un complesso gioco multilaterale non dominato da una o due superpotenze, la tempesta provocata dal triplo scontro che attraversa diversi paesi dell’area: tra popolazione e regimi, tra sciiti e sunniti, tra maggioranza sunnita e minoranze jihadiste. Molti, giustamente, evocano la guerra dei trent’anni. Ma quanto è lontana Vestfalia? E le nostre diplomazie sapranno, come l’Italia propone, lavorare per un «concerto Mediterraneo» che promuova misure minime per ristabilire dialogo e fiducia? A questo, in fondo alludono le riunioni recenti su Siria e Libia. In tutto questo, sarebbe come non mai cruciale il ruolo dell’Europa. Ma non di un’ Europa che si fa travolgere dai migranti al punto da ripristinare le frontiere. Un’Europa della crescita, capace di governare le migrazioni e di farsi sentire nel mondo: se ci rinunciamo saremo tutti più deboli.
Paolo Gentiloni
Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale