Avere visione: è la sfida di tutte le leadership, quando escono dagli ambiti nazionali per sviluppare la loro politica estera.
Un grande Paese europeo, come il nostro, può certamente intrattenere relazioni internazionali proficue. Fare politica estera, tuttavia, è un’altra cosa. A tal fine, occorre elaborare e mantenere una visione d’insieme di come vanno le cose del mondo e del ruolo in esse dell’Italia. I margini temporalmente più o meno limitati dei governi e le ristrettezze finanziarie sono, da questo punto di vista, relativamente secondari. Vanno stabilite delle priorità, ma esse potranno rispondere ai nostri interessi di fondo solo se definite senza perdere di vista l’ambito complessivo nel quale ci troviamo ad operare. In altre parole, ogni Stato fa necessariamente la politica estera dei mezzi che ha ma, per dare senso e concretezza alle azioni che intraprende, la sua ambizione e la sua vocazione devono essere globali.
Così come, sul piano interno, la crisi economico-finanziaria ci offre l’occasione per stimolare e consolidare comportamenti virtuosi, essa potrebbe farci convergere verso una concezione più condivisa e realistica del nostro ruolo internazionale: ne abbiamo spesso pagato l’assenza, negli anni, in termini di status del Paese e di efficacia della nostra azione. E il governo in carica renderebbe un servizio meritorio, se lasciasse in eredità ai suoi successori un simile approccio metodologico.
Da dove partire? Anzitutto, uscendo dallo scettico assioma che l’Italia non pesa particolarmente nelle relazioni internazionali. I Paesi contano oggi sostanzialmente per le iniziative che prendono e per le posizioni che esprimono.
Quanto più credibili e affidabili queste ultime, tanto maggiore l’autorevolezza dei Paesi e, con essa, meno impervie le condizioni per assicurare efficacemente la loro sicurezza e promuovere la loro competitività. Insomma, la politica estera va annoverata a giusto titolo tra i fattori di affidabilità e dunque tra i motori della crescita degli Stati e i ministeri degli Esteri, per certi versi, tra quelli economici.
Quali possono essere dunque, in un simile contesto — e sulla base anche delle dichiarazioni programmatiche del presidente Monti e del ministro Terzi — le componenti prioritarie di un’agenda globale dell’Italia?
L’Unione europea prima di tutto, ovviamente. Ma partendo dalla consapevolezza che non ci sarà autorevolezza per noi in Europa, finché non potremo parteciparvi con un «sistema Paese» solido, in grado di identificare con chiarezza e difendere con efficacia il nostro interesse nazionale. L’Europa ha bisogno per affermarsi di Stati nazionali forti, in grado di mettere in comune su base di parità tra di loro porzioni crescenti di sovranità nazionale, senza che ad ogni revisione dei meccanismi esistenti si debba paventarne la perdita da parte di alcuni, a beneficio di pochi altri. E altrettanto coesa dev’essere l’Unione per ampliarsi ai Balcani, come dobbiamo impegnarci a favorire.
Lo spazio transatlantico poi, fatto di saldi e articolati rapporti con gli Stati Uniti, ma anche della considerazione di quanto strategico sia divenuto il principio della solidarietà alleata. Ad esso non si può ormai venire meno, senza pagare un prezzo intollerabile in termini di credibilità. Ed è qui che si continuerà a giocare il nostro valore aggiunto internazionale, con la prosecuzione delle missioni di pace, con la presenza nei teatri di crisi, con l’affidabile partecipazione allo sforzo per indurre l’Iran a negoziare seriamente sul dossier nucleare.
Il Mediterraneo, quindi. Posizione geografica, tradizione e sviluppi recenti ci impongono una presenza attiva. Dovremo sapervi aggiungere anche la capacità di dare ai Paesi della Regione un quadro di riferimento più complessivo, che ne rinsaldi il legame con l’Europa, coniughi il rafforzamento della fiducia reciproca, con lo sviluppo delle collaborazioni intraregionali e la promozione della dimensione umana e dei contatti tra le società civili. Tutto ciò, senza omettere di far sentire la nostra voce equilibrata in Medio Oriente e senza tralasciare di proporre il nostro «sistema Paese» all’attenzione dei Paesi del Golfo, a loro volta nuovi centri nascenti di influenza mondiale.
La politica dei valori, inoltre, mirando a dare senso e contenuti alti allo stare al mondo dell’Italia, con impulso alle nostre battaglie per i diritti umani e delle minoranze, contro la pena di morte, per l’emancipazione femminile, per la tutela dell’infanzia, per la libertà di stampa, di opinione e di culto.
Il rapporto infine con i grandi Paesi del mondo (riduttivo chiamarli semplicemente emergenti). Non possiamo aspettare oltre a definire con essi — e includendovi i principali Paesi africani — delle vere e proprie agende globali. Esse vanno estese e articolate per ricomprendervi, accanto alla cura dei rapporti bilaterali, sempre più anche il confronto sulle principali tematiche internazionali e sulla governane economica dei fenomeni della globalizzazione, facendo leva sulla comune appartenenza al G8 e al G20. Il rilancio delle nostre relazioni con il Brasile rappresenta, sotto questo profilo, un’ovvia priorità.
Non occorre, giova ribadirlo in conclusione, avere necessariamente grandi mezzi e grandi dimensioni per pensare in grande e per collocare le proprie iniziative — da individuare con accortezza e da finanziare, poi adeguatamente — in un ambito complessivo, che dia loro coerenza ed autorevolezza.
Ripensare altresì, in questa chiave, anche i nostri strumenti, da quello insostituibile della rete diplomatica, a quelli dell’internazionalizzazione del «sistema Paese», di penetrazione di nuovi mercati, di attrazione degli investimenti, di cooperazione allo sviluppo, di promozione della sicurezza energetica è una sfida ambiziosa, ma alla nostra portata. Riuscirci è difatti prima di tutto un fatto culturale e di mentalità: di «visione» condivisa, appunto.