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Dassù: “L’Europa faccia la sua parte” (La Stampa)

Dassù: “L’Europa faccia la sua parte” (La Stampa)


Barack Obama ha detto una cosa essenziale, nella sua prima visita in Israele: scommettete sul vostro futuro e non solo sul vostro passato. L’America difenderà sempre il vostro passato ossia la legittimità dello Stato ebraico. Ma il passato non basta: esiste un futuro che è fatto – al tempo stesso – di minacce regionali e di grandi opportunità. Visitando il Museo dove sono custoditi i «rotoli del Mar Morto», Obama ha ricollocato la sua presidenza (troppo a lungo distratta) dalla parte del popolo ebraico e della sua storica presenza in Terra Santa. Parlando ai giovani studenti dell`Università di Gerusalemme, Obama ha invece insistito sul dinamismo, sull`innovazione, sul talento scientifico della democrazia israeliana. La società prima che la politica (Obama ha preferito l`Università alla Knesset). La speranza e non solo la paura. Il futuro e non solo il passato. Con l`America accanto.


Si dirà che un messaggio così «macro» non troverà riscontro nella realtà. Le parole, in Medio Oriente, volano via più veloci della sabbia. A cominciare da quelle del famoso discorso del Cairo, che avrebbe dovuto sancire, nelle intenzioni del primo mandato di Obama, un «nuovo inizio» nei rapporti fra Stati Uniti e governi arabi nati dalla scossa del 2010. O si dirà che – aldilà della chiarezza con cui Obama ha rilanciato la soluzione dei due Stati – l`America non vede più soluzioni. E neanche le coltiva più di tanto: Obama lascerà a John Kerry, il nuovo segretario di Stato, il compito di occuparsi di un negoziato che ha già ucciso le speranze di troppi presidenti americani. Clinton, anzitutto. In effetti, è difficile ricordare una visita accompagnata da un così basso livello di aspettative.


Cerchiamo quindi la misura. Obama ha dato il là, ha recuperato Israele rispetto al primo mandato, ha dimostrato – a Gerusalemme e a Ramallah – di riuscire a parlare la stessa lingua, che in parte ricorda quella di Peres: Israele ha diritto di difendersi, il dialogo è indispensabile, la politica degli insediamenti è di ostacolo, il terrorismo è inaccettabile, l`integrazione economica conterà più di tutto. Ma il presidente americano non intende esporsi personalmente: la missione, per come è concepita dalla Casa Bianca, resta essenzialmente domestica. A dieci anni dalla guerra in Iraq, il nation building, per Obama, va fatto a casa.


Il dato essenziale da cogliere, per gli interlocutori americani nella regione, è proprio questo. L`America non può o non vuole più esercitare, nella regione mediorientale, lo stesso tipo di leadership che ha esercitato di fatto – con alterni risultati – dalla metà del secolo scorso in poi. Per una serie di ragioni: la rivoluzione energetica (shale gas e tight oil) prefigura la fine della dipendenza dalle petromonarchie arabe; la riduzione della spesa pubblica significa riduzione delle spese militari; il problema Cina significa presenza in Asia, prima che nel Golfo. Obama era e resta un presidente concentrato sull`economia e sull`America. Questo non significa, tuttavia, che gli Stati Uniti possano semplicemente «mettere da parte» il Medio Oriente. La due grandi crisi regionali – Siria ed Iran – richiedono in ogni caso un rapporto funzionante fra l`America e i suoi alleati, a cominciare da Israele. Se Obama non aspira ad essere un nuovo Clinton, deve d`altra parte evitare di ritrovarsi nelle condizioni di Carter di fronte alla sfida iraniana. Per questo, la posta in gioco geopolitica, nel viaggio di Obama, ha riguardato, più che il dialogo israelo-palestinese, le implicazioni della guerra in Siria e le «linee rosse» con Teheran.


Conclusione: la prima visita di Obama in Israele non sembra un ritorno alla grande dell`America ma neanche un viaggio di addio. L`America resta impegnata in Medio Oriente; ma con minori risorse, in modo più selettivo e cercando (lo ha dimostrato del resto il caso della Libia) di distribuire oneri e responsabilità. E`un messaggio per Israele e i suoi avversari, per i palestinesi, per l`Arabia Saudita. Ma anche per noi europei. Dopo avere protestato sia per l`interventismo dell`America che per la sua fine, l`Europa deve darsi mezzi e capacità per fare la sua parte in una regione che la vede molto più direttamente esposta di quanto siano gli Stati Uniti. Discorsi che, visti da questa parte dell`Atlantico, sembrano al vento, più che scritti sulla sabbia.

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