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Giro: «Ragazzi perduti nel jihad» (Avvenire)

Cherif, Smaïn, Amedy, Khaled, Mohammed, Boubakeur, Farid… giovani di origine musulmana, nati o cresciuti in Europa, transitati per le sue anonime periferie, un cattivo rapporto con la scuola e famiglie fragili, spesso senza il padre, svuotati e alienati, alle prese con la polizia e il carcere, pronti per l’incontro con i reclutatori del jihadismo. Sono i figli di un’integrazione fallita, del disagio divenuto violenza. Sono l’obiettivo di reclutatori senza scrupoli. Hanno frequentato le nostre scuole, le nostre piazze: pongono una domanda alla società europea. Nel caso parigino, la cosa che più colpisce non è solo che la traiettoria sia la stessa: anche le persone lo sono. Si conoscevano, hanno stretto un patto di sangue verso un destino già scritto di assassinio, terrore e morte. Come HM, come Khaled Kelkal, le cui storie sono narrate in questo libro, anche Ché-rif e Amedy hanno avuto modo di esprimere il loro disagio iniziale- divenuto follia terroristica – ad agenti, operatori sociali, giornalisti, ricercatori. Le interviste a Kelkal sono note, così come i video sui fratelli Kouachi, fino all’udienza di Amedy dal presidente, attorniato dalle telecamere. A guardare certe immagini, viene difficile credere a tale tenebrosa trasformazione: paiono giovani come altri, che cercano di emergere dall’anonimato, innamorati del rap, della musica, dello sport. Ma la loro fragilità interiore li ha resi prede consenzienti di un mondo parallelo e oscuro, che nel corso degli anni si è silenziosamente formato a casa nostra, nelle periferie delle nostre città Travolti da una rabbia fredda e da un’ideologia indotta, hanno creduto nella «redenzione», nella «guerra santa» che tutto avrebbe cambiato, nel jihad contro «corrotti e oppressori», scambiando la loro funesta battaglia per quella di altri, in un miscuglio di mistificazioni, collera e nichilismo. Hanno abbracciato conflitti altrui come propri, si sono identificati con una versione astratta della religione, buona per tutte le stagioni, hanno pensato di trovare un’identità che li ripagasse da una vita frustrata e percepita senza sbocchi. Tra le storie di chi ha vissuto questa caduta verso l’inferno negli anni Ottanta, poi nei Novanta fino a giungere al nuovo millennio, c’è un’agghiacciante similitudine. Le radici sono state piantate decenni fa, dando luogo alla miriade di gruppi, cellule, nuclei e katibe del tessuto radicale e terroristico che si è progressivamente steso sulle collettività islamiche d’Europa, inquinando moschee, centri culturali, famiglie. Il contatto è avvenuto tramite viaggi iniziatici, relazioni, incontri in carcere. Molte le moschee e sale di preghiera in cui si è reclutato.

C’è però anche una differenza: ora si recluta sul web. La «jihado sfera» è già stata un’idea di al-Qaeda, ma solo come contorno, anche se resta famosa la frase di al-Zawahiri: «il jihad mediatico è già metà della lotta». Dae’sh ne ha fatto il cuore della battaglia. Le storie dei nuovi jihadisti, quelli recentemente partiti per la Siria, sono sempre più legate a conversioni solitarie, via social network, Facebook, Thritter o altro. Così come la possibilità di viaggiare facilmente con passaporti europei aveva favorito gli spostamenti degli aspiranti jihadisti degli anni Ottanta e Novanta, oggi l’arruolamento è facilitato dall’espandersi a macchia d’olio dei nuovi media e delle applicazioni telefoniche gratuite. Chiusi nelle loro stanze, ragazzi e ragazze – spesso adolescenti – consultano senza filtri migliaia di pagine nella rete, entrando in contatto con offerte di qualunque tipo.

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