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Giro: «La nuova cooperazione? L’unione fa la forza» (Unità)

Puntare a un nuovo modello di Italia, che poggi sulla consolidata forza dell’economia e della cultura, ma anche sulla cooperazione. Ne parliamo con Mario Giro, 57 anni, nuovo viceministro degli Esteri con delega alla Cooperazione Internazionale.

«Grazie all’entrata in vigore della legge 125, la nuova Agenzia per la cooperazione è ora in grado di viaggiare più snella, ma soprattutto si è ampliato moltissimo il perimetro d’intervento della cooperazione internazionale dell’Italia. Abbiamo così la possibilità di essere più efficaci e rapidi negli interventi, mentre ci sono nuovi soggetti nella costruzione della cooperazione: il settore privato, le diaspore straniere. Ci sarà quindi una più forte integrazione con la società civile in tutte le sue sfaccettature. Il mio compito sarà proprio questo, per raccontare ai cittadini cosa fa l’Italia nel mondo e cosa rappresenta. È un nuovo modello di presenza, insieme a quella culturale e a quella economica. È un’opportunità in più per contare e decidere i processi nel mondo».

Il Governo ha voluto dare una inversione di tendenza, dopo anni in cui i fondi stanziati per la cooperazione internazionale erano il fanalino di coda…

«La prima inversione c’era stata già con il governo Monti, quando il ministro Riccardi alzò il budget di 100 milioni. Renzi ne ha aggiunti 125 quest’anno, per un totale di 447 milioni. Nel 2017 se ne aggiungeranno 240, e nel 2018 altri 360. C’è stata una grossa ripresa in termini quantitativi. Ci siamo impegnati a non essere più ultimi per i fondi, puntiamo a divenire il quarto Paese all’interno del G7. Questo ci permetterà interventi più mirati e meno frammentati. Dietro c’è l’idea della cooperazione internazionale come strumento cruciale della nostra politica estera».

Parlava di interventi più mirati. Gli ultimi viaggi del premier nel mondo hanno dato le linee di quelle che potrebbero essere le priorità. Penso all’Africa o all’America Latina?

«L’Africa è in assoluto una priorità. Matteo Renzi ha dichiarato di voler fare dell’Africa “una priorità della politica estera italiana”. Da qui i suoi viaggi, mai nella storia repubblicana un Presidente del Consiglio aveva viaggiato così tanto in Africa. È la nostra nuova frontiera, è la profondità strategica dell’Italia. Il che significa poter fare la differenza in alcuni Paesi. Nel Mediterraneo, Tunisia e Libano. Dobbiamo proteggere le fragili democrazia tunisina e la complessa convivenza libanese. Un’altra priorità è l’Africa Occidentale, incluso il Sahel: Niger, Mali, Costa d’Avorio, Senegal e Ghana, dove siamo andati con Renzi. Poi il Corno d’Africa, con cui ci unisce la storia. Il Mozambico è infine già un esempio di forte e storica presenza italiana, sfaccettata nei diversi livelli, dalla pace all’Eni».

Tutto questo in termini geografici. Entrando nello specifico, quali saranno le attività in questi Paesi?

«Bisogna inaugurare un nuovo modello di cooperazione italiana, una nuova alleanza profit-noprofit. Questo è anche il compito che mi è stato dato. Ci tengo particolarmente perché penso che c’è un aspetto particolare della cultura italiana è la collaborazione».

Ci faccia un esempio pratico?

«La deradicalizzazione di alcune società in via di sviluppo. È possibile spegnere quelle frange di radicalismo islamico tramite l’educazione la cultura e la scuola, tramite lo sviluppo economico e con la cooperazione e la difesa della democrazia. È un po’ un tridente di sforzi. Noi dobbiamo porci anche questi obbiettivi. Se penso all’esempio della Tunisia, dobbiamo usare tutti questi strumenti insieme».

Il  radicalismo ora è presente in Libia, Paese che ci interessa da vicino.

«Poiché in Libia non esiste ancora uno Stato vero e proprio, ma il governo è molto impegnato affinché il recente accordo firmato in Marocco venga implementato. L’Italia è riuscita a contenere il conflitto, convincere i Paesi terzi coinvolti a non far affluire armi pesanti. Non appena il governo si insidierà a Tripoli, la cooperazione riprenderà tutte le attività sospese, che sono poi tantissime e non si limitano agli aiuti pubblici allo sviluppo».

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