Emanuela Claudia Del Re è nel pieno del coordinamento degli aiuti italiani al Libano. Non solo perché è viceministro per gli Esteri e la Cooperazione (M5s). Come sociologa esperta di politica internazionale ha seguito dal 2010, e per diversi anni, un progetto di riconciliazione nella Tripoli libanese. Ed è fiduciosa sulle capacità di reazione di questo popolo, sempre in bilico tra vita e tragedia.
«Ci serve tutto» è la richiesta da Beirut. Sono andati distrutti due ospedali, le riserve di grano. Cosa farà l’Italia?
La sera stessa dell’esplosione avevo dato la disponibilità ad inviare aiuti per l’assistenza sanitaria. Ho attivato la Direzione generale e l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Il premier Hassan Diab ha rivolto un appello disperato ai paesi amici. Oltre alla tragedia delle vittime c’è il problema dei 300mila senza casa e del porto distrutto che potrebbe causare gravi problemi per l’approvvigionamento. C’è una grande richiesta di vetri, distrutti dallo spostamento d’aria. Nel quadro del meccanismo europeo di protezione civile stiamo inviando otto tonnellate e mezzo di kit chirurgici. La protezione civile invierà le squadre specializzate nel nucleare biologico chimico radiologico.
Negli anni scorsi lei ha lavorato a lungo in Libano. Cosa ha capito di questo complesso Paese?
Ho avuto il privilegio di lavorare sul campo in alcune zone della Tripoli libanese, a Bab al-Tabbaneh e Jabal Mohsen, quartieri limitrofi che si sono combattuti, uno sunnita e l’altro alawita. Conflitti settari che hanno afflitto profondamente la popolazione e prodotto uno stato mentale di grave prostrazione. Gli edifici sono ancora crivellati di colpi, nelle strade ci sono filo spinato e carri armati. Nonostante i progressi, la pesante crisi economica e la mancanza cronica di energia elettrica avevano già allontanato la gente dalle istituzioni, per l’assenza di prospettive. Ma il Libano ha grandi risorse intellettuali. C’è una gioventù effervescente, preparata e partecipe. Sono spaventata da questa nuova battuta di arresto nel percorso virtuoso di un popolo che ha accolto il maggior numero di rifugiati siriani.
Dal 2006 i militari italiani collaborano a Unifil, con oltre 1.000 uomini. Ma siamo in Libano da molto prima.
E’ una presenza che ci rende orgogliosi. Fondamentali per il rispetto del cessate il fuoco e della Blue line, le nostre Forze armate ora si affiancano alla macchina dei soccorsi. Il rispetto che l’Italia si è guadagnata sul campo, tanto da essere alla guida di questa missione, è dovuta anche alla cooperazione italiana allo sviluppo in Libano. Ora il comando italiano del Sector West ha messo a disposizione due squadre sanitarie per aiutare nella ricerca e soccorso.
Il Libano è diviso tra maroniti e musulmani, tra milizie e istituzioni. Ha accolto un milione di siriani. Ora c’è il Covid-19. C’è il rischio di una svolta integralista?
Il Paese era già in una grave situazione economica, politica. Esporta pochissimo e importa quasi tutto. Anni e anni di sfibranti conflitti hanno diviso la popolazione, nonostante i percorsi di riconciliazione animati dalla società civile libanese e internazionale. Oggi credo che la comunità internazionale debba stringersi attorno al Libano per evitare radicali azioni e strumentalizzazioni. Un aiuto internazionale coeso verrà apprezzato dal popolo libanese. Vanno attivate tutte le forze positive, come il dialogo interreligioso, un volano in grado di ripristinare la reazione sociale. E’ un paese di grande cultura, uscito da molte crisi. Deve restare un faro di democrazia nel Medio Oriente.