Quando mi chiedono dove ho prestato il servizio militare, rispondo: a New York, con Francesco Paolo Fulci, l’«ambasciatore di ferro», il diplomatico definito leggenda da Madeleine Albright. Una volta si era sentita rispondere con fiero coraggio: «Non sono sergente dei marines ma l’ambasciatore d’Italia». Finì per ammirarlo. Fulci fu soprattutto un maestro, per me e generazioni di colleghi in Farnesina. Il nostro, quello dei «Fulci boys», fu un servizio militare inteso nel senso più nobile. Lo fu perché ci educò all’onore di dedicarsi cuore, tendini e nervi al bene dell’Italia, alla tutela dei suoi interessi, a non sentirci inferiori a nessuno, orgogliosi e consapevoli della nostra storia senza restarne prigionieri, costruendo ogni giorno il futuro del Paese. Lo fu perché imparammo che ogni impresa si realizza con lavoro, disciplina, meticolosa preparazione e perseveranza. Così arrivarono 27 vittorie elettorali all’Onu su 28: un record, che alimentò una fama di invincibilità, al punto che gli ambasciatori stranieri confessavano: «Se si presenta l’Italia, pensiamoci bene prima di candidarci». Lo fu perché nell’arte diplomatica — che pure è fatta di astuzie, trattative, blandizie, assalti sferrati e subiti con la sciabola o col fioretto — non deve mancare uno spirito cavalleresco di fondo. Intendo la capacità di accettare le regole e i verdetti della competizione, sapendo che tutti concorrono per vincere, che nessuno fa sconti e che è giusto così. Significa anche franchezza nella lealtà verso gli alleati, come con la Albright, e rispetto per avversari di valore. A un summit all’Onu, chiamato al podio, non lo trovavamo: era al banco del collega straniero per anticipargli, con signorile trasparenza, che lo avrebbe attaccato duramente. Ci insegnò la costante e particolare attenzione ai Paesi più piccoli, spesso trascurati. Sostenne una visione più democratica dell’organizzazione. Con lui comprendemmo l’importanza della coesione per raggiungere il successo. Lo spirito di gruppo, nella responsabilizzazione di ogni componente, viene prima di tutto. Prima delle simpatie e antipatie reciproche, dei virtuosismi dei solisti, delle ambizioni individuali. Nelle difficoltà l’Italia si è sempre tirata su grazie a queste qualità collettive che, come ama ripetere il ministro Di Maio, dovremmo far prevalere sempre. Dovevamo noi per primi rappresentare all’estero l’immagine di un Paese compatto attorno agli interessi nazionali: «Nessuna battaglia per quanto difficile, potrà essere persa se la squadra è unita», ci diceva. Si batté sempre contro il vizio italiano dell’autoflagellazione: mai indulgere in commiserazioni personali o nazionali, anche dinanzi a grandi difficoltà. Tutto ciò è quanto occorre per fare un eccellente funzionario dello Stato o dirigente d’azienda. Posso testimoniare che l’ambasciatore Fulci sublimò tali caratteristiche. Mancherà al Paese, mancherà a tutti noi.