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Tajani: «Ma non dimentichiamo la strage del 7 ottobre. Ora lo Stato palestinese»

Tajani: «Ma non dimentichiamo la strage del 7 ottobre. Ora lo Stato palestinese» (Il Messaggero)
Tajani: «Ma non dimentichiamo la strage del 7 ottobre. Ora lo Stato palestinese» (Il Messaggero)

Ministro Tajani, Gaza, Cisgiordania, Libano e ora si parla di attacchi di Israele in Yemen. Non ha ragione il Papa secondo cui una difesa esagerata non è accettabile?

«Certo, la difesa non dev’essere esagerata, e condivido ciò che dice il Santo Padre, ma è stato catastrofico l’attacco dal quale è cominciato tutto. Mi riferisco al 7 ottobre. È stato un atto da nazisti, e questo non va dimenticato mai. Si sono comportati come i nazisti a Marzabotto dove sono appena stato, insieme al presidente Mattarella e al ministro Anna Maria Bernini, per la cerimonia del ricordo di quell’eccidio terribile. Sento spesso parlare della reazione di Israele al 7 ottobre, con migliaia di morti e centinaia di ostaggi, ma ci si dimentica troppo di ciò che ha compiuto giusto un anno fa Hamas. E non vorrei che, un anno dopo, le manifestazioni e le riflessioni su quella strage da cui è cominciato tutto risultino sbilanciate a favore di una parte e a scapito di un’altra».

Non crede però che la comunità internazionale debba essere più incalzante nel chiedere a Netanyahu una de-escalation?

«La stiamo chiedendo con tutta la forza che abbiamo. Noi siamo per il cessate il fuoco sia a Gaza sia nel Libano, e per la salvaguardia della popolazione civile. Stiamo facendola nostra parte fino in fondo. E il G7 è unitissimo su questo».

Perché Netanyahu non risponde?

«Noi possiamo fare pressioni politiche, e le assicuro le stiamo facendo molto convintamente, ma Israele è un Paese sovrano e le decisioni spettano al suo governo. La nostra azione comprende anche l’invio di aiuti umanitari sia in Libano sia a Gaza. Sono stati consegnati, e si continua a farlo, cibo e medicinali».

Ma non ci sono ritardi e blocchi?

«Non mi pare, anche perché questo progetto Food for Gaza è sostenuto, oltre che dalla Croce Rossa, dalla Fao e da altri organismi internazionali e dall’Autorità Nazionale Palestinese, anche da Israele. E per quanto riguarda il Libano, l’altra sera ho avuto una lunga conversazione con Israel Katz, il ministro degli esteri di Tel Aviv, nella quale in particolare ho insistito affinché non ci siano attacchi nei pressi delle basi militari dell’Unifil nel Sud di quel Paese. Mi sembra che queste pressioni stiano avendo successo. Ci è stato assicurato che non ci saranno questi attacchi. A Beirut intanto abbiamo ridotto il nostro contingente impegnato ad addestrare l’esercito libanese. Da oltre cento militari si è passati a 15. E abbiamo invitato tutti gli italiani ad andarsene da quel Paese, i voli di linea per Roma e per Milano sono pieni. Ci sono stati finora tra i 200 e 300 italiani che lavorano in Libano. Mentre sono 2000, e anche alcuni di questi stanno andando via, che vivono stabilmente e hanno famiglia a Beirut e in altre città».

L’Italia che è un grande Paese commerciale quanto può durare nella sua forza in questo settore se continuano, tra Ucraina e Medio Oriente, le guerre ai suoi confini?

«Il nostro export procede positivamente, sta andando bene nonostante le guerre. Siamo intervenuti con la missione Aspides proprio per proteggere i mercantili dagli attacchi degli houthi. Abbiamo anche partecipato con Aspides all’azione per prevenire il disastro ambientale, accompagnando in porto nel Corno d’Africa la petroliera colpita dai guerriglieri yemeniti. L’Italia sta cercando di scoprire nuovi mercati. M’immagino quanto saremmo più competitivi se non ci fossero queste guerre. Anche per questo dobbiamo impegnarci fortemente per rendere tutte le rotte commerciali più sicure».

Non vede anche lei che lo schema due popoli e due Stati sta diventando sempre più improbabile?

«L’obiettivo deve assolutamente restare quello. E tutte le parti devono capire che non esistono altre soluzioni».

Tutte le parti, quindi anche Israele che continua con gli insediamenti in Cisgiordania?

«Non mi pare esista l’alternativa. E l’unica condizione perché ci sia la pace è dare ad Israele la sicurezza di vivere in tranquillità e di svilupparsi e parallelamente consentire la realizzazione del sogno del popolo palestinese ad avere un proprio Stato. Devono riconoscersi a vicenda e ognuno deve fare la propria parte. Perciò la comunità internazionale sta lavorando a una de-escalation».

Qual è il progetto da mettere subito in campo?

«Inviare una missione Onu a guida araba, con il coinvolgimento anche di militari italiani e siamo prontissimi a mandarli, per riunificare Gaza con la Cisgiordania. Ci vuole tempo per arrivare a questa soluzione. Ma per garantire stabilità e pace questa è l’unica soluzione. Riconoscere la Palestina non dev’essere un “dispetto” a Israele ma una scelta seria per costruire la pace. Il popolo palestinese ha il diritto a un suo Stato e Israele ha il diritto a non venire attaccata o addirittura cancellata, come vorrebbe il terrorismo stragista, dalle cartine geografiche».

Lei cita l’Onu, ma le Nazioni Unite sembrano deboli e balbettanti. E Netanyahu ha definito questa organizzazione «una palude anti-semita». Quindi?

«Quindi, considerando che il multilateralismo è l’unico strumento utilizzabile e da rinforzare, occorre una riforma dell’Onu. Basta con la classificazione tra Paesi di serie A e Paesi di serie B. È una graduatoria che va rimossa. La riforma dell’Onu a questo deve mirare. Una soluzione può essere la rotazione dei vari Paesi da eleggere in consiglio di sicurezza e l’Italia chiaramente è tra questi. Io credo nel multilateralismo, ma dev’essere efficace. Va rivisto, riformato e rilanciato. Serve maggiore interventismo dell’Onu, e allo stesso tempo anche il G7 e la Nato possono e devono svolgere un ruolo da protagonisti».

Lei ha avuto un importante colloquio con il ministro degli esteri dell’Iran. Ma si può davvero coinvolgere quel Paese in un percorso di pace in Medio Oriente oppure è impossibile parlare con loro?

«Noi siamo amici di Israele, abbiamo condannato la decisione dell’Iran di fornire armi alla Russia, non condividiamo molte scelte che fa quel Paese, ci troviamo in radicale dissenso su come negano e violentano i diritti umani. Però l’Italia, per costruire la pace, parla con l’Iran e continuerà a farlo con molta determinazione. Stiamo chiedendo al governo di Teheran di calmare gli intenti bellicosi dei gruppi armati a loro collegati in Libano, in Siria e in Yemen. Le porte della diplomazia devono restare aperte».

Quali gli spiragli?

«È un mondo complesso, e teniamo presente che tutti i Paesi sunniti non sostengono l’Iran e i loro gruppi. C’è tutto un contesto arabo da coinvolgere e che può molto aiutare nel superamento delle crisi».

  • Autore: Mario Ajello
  • Testata: Il Messaggero

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