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Il Ministro Moavero alla Conferenza ‘The State of the Union’

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Il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi, è stato il 2 e il 3 Maggio a Fiesole presso l’Istituto Universitario Europeo, per i lavori della IX edizione della conferenza: “The State of the Union”, tradizionale appuntamento annuale di riflessione ad alto livello politico sui temi europei.

Intervento del Ministro:

Ringrazio l’Istituto Universitario Europeo per l’invito che mi ha rivolto, e che mi permette oggi di illustrare brevemente le mie opinioni sulla situazione dell’Unione Europea e le complesse sfide da affrontare.

Le elezioni del Parlamento Europeo di fine mese rendono ancora più opportuna una riflessione. Più che mai necessaria. Infatti, per chi ama le date: siamo a 68 anni dalla ‘Dichiarazione Schuman’, a 62 anni dal Trattato di Roma, a 40 anni dalla prima elezione a suffragio universale diretto del Parlamento Europeo.

Inizio su una nota positiva. Grazie al processo d’integrazione grazie alle Comunità Europee e all’Unione Europea, noi europei siamo gli artefici di un innegabile successo: un inedito, lungo periodo di stabile pace fra gli Stati. Un risultato storico, prezioso che tendiamo – troppo spesso – a dare per scontato. Questa è la premessa indispensabile di ogni valutazione che pretenda di riassumere quanto abbiamo vissuto.

Dopo secoli di conflitti intestini, alla fine degli oltre trent’anni di guerra civile europea del’900, l’intuizione di blindare la pace, attraverso la progressiva unificazione dei mercati (mercato comune) e poi delle economie, si è rivelata lungimirante.

La creazione del mercato comune, la fine delle barriere e dei controlli alle frontiere, il varo delle politiche comuni sono incardinati da precetti base e dalla capacità di adottare nuove norme, proprie al sistema europeo integrato.

Inoltre, viene istituita una Corte di Giustizia ad hoc: decisiva – specie, nei primi anni – nel plasmare i principi giuridici fondamentali della costruzione europea, assicurandone nel contempo l’osservanza rigorosa e l’uniforme interpretazione.   La ‘comunità europea del diritto’ accompagna e inquadra la ‘comunità economica’.

Come insegna Grozio (De iure belli ac pacis), lo sviluppo non conflittuale delle relazioni internazionali è sempre legato a un progresso del diritto.

L’architrave giuridica europea, la troviamo sintetizzata nei ‘valori’ base, ripresi già nel ‘Preambolo’ del Trattato UE: “diritti della persona, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto” e sancita nell’esplicito vincolo giuridico dell’articolo 2 TUE.

Determinati a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli d’Europa”, come dichiarano nel ‘Preambolo’ del Trattato, gli Stati fondatori diedero avvio a un processo animato da un disegno politico di palese prospettiva federalista.

Del resto, è proprio Robert Schuman a non esitare nella sua ‘Dichiarazione’ a parlare esplicitamente di “prima tappa della Federazione europea”; termine che ricorre di continuo, nei discorsi politici di Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer.

Il sogno di un’Europa unita diviene idea politica durante la tragedia delle guerre mondiali e trova la sua genesi concreta e istituzionale in un approccio graduale e pragmaticamente ‘funzionale’.

Qui c’è un’altra nota positiva: tale approccio ha portato, negli anni, i suoi frutti. Ne sottolineo due.

Il primo è il contributo decisivo al raggiungimento e alla grande diffusione del benessere per i cittadini europei. La dinamica miscela di cooperazione e competizione fra sistemi-paese e fra impese galvanizza l’economia e per decenni ne assicura la crescita e crea occupazione stabile.

Ne deriva anche una progressiva, profonda interdipendenza fra le economie degli Stati membri. Pressoché ineliminabile, come dimostrano le difficoltà del Regno Unito a trovare una via d’uscita.

Il secondo agisce nel subconscio: è il subliminale affermarsi di un nuovo sentimento di affiliazione europea. Non è più un malinteso senso di supremazia e neppure l’empirica osservazione di dati esteriori. Non è soltanto il comune patrimonio storico, culturale, artistico, che pure conta per chi è in grado di apprezzarlo.

Penso, invece, alla nuova e spontanea identità europea di tante persone che vivono e crescono nello spazio europeo, che oggi, per loro, è un semplice dato fattuale, normale e consolidato. Anche se spesso non se ne rendono interamente conto, moltissimi fra i nati a partire dagli anni ’70 ricevono un’educazione più genuinamente europea, non pensano ad altri europei come nemici (anzi), hanno i rudimenti base di almeno una lingua ‘straniera’, viaggiano, affrontano simili esperienze personali e professionali; il tutto semplificato dalle sempre più agevoli comunicazioni materiali.

Questi elementi non sono affatto estranei all’evoluzione della democrazia in Europa. Al passaggio – tutt’altro che repentino – dagli entusiasmi allo scetticismo, alla contrarietà.

Appariva vasto e istintivo il consenso quando, nel 1968, si eliminano, con un anno di anticipo, i dazi doganali. O quando, nel 1979, si passa all’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento Europeo, dando più compiuta e democratica rappresentanza ai cittadini. O ancora, quando la Commissione Delors predispone, nel 1985, il Libro bianco sul completamento del mercato unico, indicando con precisione le normative da approvare a tal fine che – fatto essenziale, per apprezzare la bontà del metodo – vengono poi adottate nell’arco temporale previsto. Come pure, nel 1984, quando il Parlamento Europeo vota il progetto di Altiero Spinelli di un trattato sull’unione europea; e nel 1986, con la riforma dell’Atto Unico Europeo che in particolare, dà un ruolo di co-legislatore al Parlamento Europeo e sveltisce i meccanismi legislativi.

Convinti di essere sulla cresta dell’onda, si lavorava alla fine degli anni ’80 per coronare il mercato unico, con una moneta unica. Tema divisivo, sensibile: perché tocca il profondo della sovranità e i delicati equilibri del difforme stato di salute dei conti pubblici e delle economie dei vari paesi, nonché dei rischi attinenti che si ripercuotono sulla nuova moneta.  Opera già di per sé, ardua.

Per di più, la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e della ‘cortina di ferro’, cambia la storia e la geografia politica europea. È la fine del mondo diviso in due blocchi. I confini potenziali delle Comunità europee si ampliano verso est.

Nuovi Stati entreranno, tanti con il loro bagaglio peculiare di una ‘sovranità’ riconquistata, meno disposti a condividerla. Il dialogo fra governi si fa più complesso e lo sarà sempre di più.

L’integrazione europea si avvia, allora, a compiere 40 anni, la realtà è radicalmente mutata: occorrerebbe un’incisiva riforma delle sue istituzioni, che non viene intrapresa.

Contribuiscono: le differenze vivaci fra i governi nazionali, le reazioni al cosiddetto centralismo della Commissione (al ‘super-Stato europeo’), la sottovalutazione degli eventi, l’inerziale tendenza al rinvio degli apparati.

Entriamo cosi in una seconda fase dell’integrazione europea, che dura da quasi 30 anni: si va avanti, ma non ci si entusiasma più; aumentano critiche e contestazioni.

Nel 1992 viene firmato il Trattato di Maastricht, che battezza l’Unione Europea (con le sue politiche non economiche nei settori esteri, difesa, giustizia e affari interni) e disciplina l’unione economica e monetaria e l’euro, quale moneta unica.

Visibile è l’asimmetria normativa: minuziosamente disciplinata l’UEM (Unione Economica e Monetaria), vaghe e affidate soprattutto all’azione degli Stati le nuove politiche non economiche. Ben studiata la prima; abbozzate di getto le altre, in frizione con il tradizionale approccio funzionale.

Inoltre, a causa delle forti divergenze sulla moneta unica, con il Trattato di Maastricht si inaugura la stagione delle deroghe (‘opting-out’), permettendo agli Stati non favorevoli di non partecipare a una politica europea. Si dà vita all’ Europa ‘a più velocità’. Meglio così che non firmare, si dice, ma è un precedente pesante.

Peraltro, per la prima volta, una riforma dei Trattati europei è respinta dal voto di un referendum. Il ‘no’ danese è una brusca sveglia per l’illusione del consenso e del sostegno democratico. Analogo segnale arriva dal risicato ‘sì’ al referendum francese.  

Le ‘geometrie variabili’ iniziano a caratterizzare il processo d’integrazione europea. Esempi eclatanti: l’adesione al ‘sistema Schengen’ di circolazione delle persone senza controlli alle frontiere; l’applicazione per via giudiziale della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000.

Anche la Commissione cambia il suo approccio. Dagli anni 2000, si ha una netta riduzione delle proposte legislative presentate e il parallelo aumento delle iniziative affidate a un’azione decentrata, con più ruolo per gli Stati membri.

L’azione comune europea smette di sostituire quelle nazionali, per affidarsi e/o affiancarsi a esse. I risultati sono ben scarsi. Il mesto esempio è la cosiddetta ‘Strategia di Lisbona’ (2000), che avrebbe dovuto portare l’UE a diventare “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010”. Anche il SEAE (Servizio europeo per l’azione esterna), creato dal Trattato di Lisbona (2007), operativo dal 2010, anziché sostituire le diplomazie nazionali, le affianca, senza una ben definita ripartizione di compiti, creando una sorta di duplicazione di ruolo e costi di dubbia utilità. Sintomatico di una politica estera comune, in buona sostanza, inefficace o inesistente.

A poco aiutano le successive riforme dei Trattati. In soli 10 anni, ben tre (Amsterdam 1997, Nizza 2001, Lisbona 2007) – oltre al trattato costituzionale (2004) bocciato con i referendum di Francia e Paesi Bassi nel 2005 – che però non riescono a imprimere una vera svolta agli assetti istituzionali dell’UE, pur incrementando – cosa positiva per la democrazia – costantemente il ruolo legislativo del Parlamento Europeo e il voto a maggioranza al Consiglio; nonché le politiche comuni.

Mentre l’Europa procede a rilento, il mondo cambia. Negli ultimi vent’anni, la globalizzazione commerciale, economica e finanziaria, amplificata dalle nuove tecnologie di comunicazione, vede l’economia europea marginalizzarsi rispetto all’espansione in atto. Svariati paesi non europei presentano delle economie in impetuosa crescita e/o enormi disponibilità finanziarie: producono, vendono, acquistano, investono, riescono a sviluppare tecnologie chiave, dove l’Europa non è affatto all’avanguardia e anzi, dipende sempre più dall’esterno. Per il 2040, le proiezioni dicono che nessuno Stato europeo sarà fra le prime sette economie del pianeta (fino a 15 anni fa, ce ne erano ben 4).

Arrivano i problemi più recenti: la crisi economica e finanziaria globale e gli epocali flussi migratori. Rispetto a entrambe, l’azione carente dell’Unione è sotto gli occhi di tutti.

Per trovare una strategia di uscita dalla crisi economica, si procede con lentezza e fra divisioni incomprensibili ai cittadini. Molto di quanto convenuto non è stato ancora attuato e resta un’eredità perniciosa di asimmetrie accentuate all’interno dell’Unione.

Di fronte alle migrazioni va peggio: divisioni nette, norme vigenti inadeguate, mancanza di volontà dei governi di avere una vera politica europea in materia (e la base giuridica nel Trattato c’è).

Penso che l’Europa possa avere successo solo: se individua obiettivi in sintonia con le aspettative dei cittadini e ben spiegabili ai medesimi, per amalgamare le ineludibili differenze di opinione; e se li garantisce con un calendario di azioni precise e concrete, nel quadro di linee definite di ripartizione delle competenze tra Unione e Stati.

Lo indica Alcide De Gasperi, nel lontano 1951 (discorso davanti all’Assemblea del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 10 dicembre 1951), “in nessun momento bisogna agire e costruire in maniera che il fine da raggiungere non risulti chiaro, determinato e garantito”.

Senza concretezza e comprensione arriva la disaffezione dei cittadini che non comprendono le alchimie europee, né la peculiare, incompleta architettura istituzionale dell’Unione (peraltro, alquanto ostica anche a chi crede di conoscerla).

I governi nazionali hanno da tempo smesso di costruire davvero, di unirsi anziché dividersi. Più semplice criticare, biasimare, colpevolizzare. Sono mancati, e mancano, leader capaci di farsi interpreti dell’attualità della prospettiva di un’Europa integrata, in grado – unita – di farsi valere nel modo globalizzato e soprattutto, di essere la risposta ai timori attuali dei cittadini che allora si ritrovano in forme più o meno marcate, che definirei di ‘antieuropeismo della delusione’ e dell’incomprensione.

Ma cosa vogliono i cittadini, cosa vorrebbero che desse loro l’Europa, per le vie della dialettica democratica? I dati correnti dell’Eurobarometro parlano chiaro. I cittadini lamentano di sentirsi inascoltati da questa Unione Europea.

Ne reclamano l’azione: nelle politiche dell’immigrazione (50%); nella crescita e nello sviluppo economico, come per contrastare la disoccupazione giovanile (50%); nella lotta al terrorismo (44%); nella lotta ai cambiamenti climatici (40%).

Almeno 7 cittadini europei su 10 sono favorevoli: alla libera circolazione per vivere, lavorare e studiare in qualunque Stato membro (83%); a una politica di sicurezza e di difesa comune (76%); a una politica energetica comune (74%); a una politica commerciale comune (71%); a una politica dell’immigrazione comune (69%).

I cittadini ci stanno indicando le ‘necessità’, punto di partenza del metodo (funzionalista), concepito da Jean Monnet, utilizzato proficuamente da Delors e alla base dei decenni di successi. Ciascuna necessità è suscettibile di rinnovare o generare una politica concreta, funzionale a far emergere, più nettamente, proprio il profilo di ‘entità politica’ unita che l’Europa vuole e vorrà essere.

Infatti, il progetto politico non può essere dimenticato o sottaciuto, oppure lasciato morire d’inedia.

La storia europea recente ci insegna che una scarsa considerazione per l’assetto istituzionale della costruzione europea conduce a risultati di pessima ingegneria (‘una casa che non vorresti abitare’). Come accade mantenendo inalterati gli equilibri individuati nei lontani anni ’50 ovvero modellando i nuovi in maniera impropria (come nel caso dell’UEM).

Secondo me, quanto più lungo sarà il tempo perso prima di avviare una stagione di vere riforme istituzionali europee, tanto più grave sarà la perdita di sostegno dei cittadini all’Unione, e dunque la profondità del vulnus democratico.

Anche perché è fuorviante raccontare la ‘favola’ dell’Europa che potrebbe diventare federale, senza porre con chiarezza la questione di un nuovo Trattato esplicitamente tale (come puntualmente evidenziato dalla Corte costituzionale federale tedesca Bundesverfassungsgericht).

Peraltro parecchio si potrebbe muovere, anche con i Trattati vigenti, dove ci sono numerose basi giuridiche mai utilizzate e tante potenzialità inesplorate per non-volontà politica degli Stati e della Commissione.

Mi limito a cinque proposte che, penso, si impongano in via prioritaria, per rispondere alle esigenze manifestate dai cittadini europei e accentuare la rappresentatività democratica dell’Unione.

1.   Il potere di iniziativa legislativa del Parlamento europeo

Per consentire un collegamento più diretto tra la comunità dei cittadini europei e il processo decisionale, spesso ostaggio dei governi nazionali, si potrebbe attribuire al Parlamento europeo il potere di iniziativa legislativa, prerogativa fondamentale di ogni assemblea democraticamente eletta dal popolo.

Come è noto, la Commissione ha il ‘monopolio’ di tale potere, riconosciutole dai Trattati, ed è il ‘motore’ della normativa europea. È così perché si è ritenuto, in sede di Trattato CEE, che questo compito potesse assolverlo solo un organismo esclusivamente dedito all’interesse generale europeo.

Tuttavia, il legame con detto ‘interesse generale’ assume connotati differenti a fronte di una Commissione che diventa sempre più politica e dunque, prima o poi, di parte.

Inoltre, la Commissione ha da tempo perso di slancio proprio nel fare proposte legislative. È una scelta politica, come tale contestabile o apprezzabile, ma mostra che il ‘monopolio’ tradizionale diventa anacronistico.

Infine, come spiegare ai cittadini che gli oltre 700 parlamentari eletti poi non possono proporre leggi, ma solo emendare proposte altrui, approvarle o bocciarle?

L’attribuzione al Parlamento europeo di un potere di iniziativa legislativa non richiede necessariamente una modifica dei Trattati. Potrebbe avvenire attraverso un apposito accordo inter-istituzionale, che impegni la Commissione europea a fare proprie (e formalmente presentare, in ottemperanza al TFUE, dando inizio all’iter legislativo) tutte le proposte legislative che siano predisposte da un gruppo parlamentare ovvero da almeno 25 parlamentari europei, eletti in almeno un quarto degli Stati membri (riprendendo i requisiti previsti per la formazione di un gruppo nel Parlamento europeo).

2.   Una Commissione davvero politica

Siamo alle porte di elezioni per il Parlamento Europeo, precedute da dibattiti accesi e contrapposti, con marcati caratteri transnazionali. Si contrappongono visioni diverse sul futuro dell’Europa espresse dai partiti e dai candidati.

La coerenza politica nei confronti del cittadino elettore imporrebbe che la composizione della nuova Commissione riflettesse effettivamente – come accade sempre nei Parlamenti nazionali – la coalizione politica di maggioranza, quale uscirà dalle urne.

Del resto, è tale maggioranza che dovrà eleggere il Presidente della Commissione ed esprimersi con un voto per approvare l’intero collegio dei commissari.

Si rispetterebbe così pienamente la lettera del Trattato (cfr. articolo 17, para. 7 TUE, “… Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo…”).

A ben vedere, una Commissione, per così dire, più trasversale, non interamente sintonica con il Parlamento europeo, sarebbe del tutto incomprensibile per il cittadino.

3.   Iniziativa del Parlamento europeo per creare nuove risorse proprie per il bilancio UE

Il Parlamento europeo ha anche le funzioni di ‘autorità di bilancio’ dell’Unione, e il prossimo che ci accingiamo a eleggere, insieme a Commissione e Consiglio, adotterà il Quadro finanziario pluriennale dell’Unione 2021-2027.  In questo negoziato cruciale, dovrebbe far sentire, subito, la sua voce democraticamente eletta e legittimata.

Dovrebbe assumere l’iniziativa politica di promuovere la creazione di nuove e genuine ‘risorse proprie’ per il bilancio UE, al fine di aumentarne la capienza, senza gravare sugli usuali versamenti degli Stati membri (e dunque dei loro contribuenti).

Nuove risorse europee potrebbero esser raccolte tramite l’emissione di titoli di debito comune europeo ed essere destinate a finanziare e/o incentivare appropriati progetti di investimento d’interesse europeo.

Le risorse così raccolte potrebbero, per esempio, sostituire quelle attualmente impegnate nel bilancio UE (generando dei corrispondenti risparmi) per i progetti di cui ai programmi per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione (RDT); per il programma ‘Connecting Europe’; per i ‘fondi strutturali’.

Inoltre, il Parlamento europeo potrebbe dibattere l’istituzione di nuove forme di tassazione europea, integralmente a beneficio del bilancio UE. La sfida “no taxation without representation” delle colonie inglesi nordamericane, diventerebbe nell’UE una sfida “no representation without taxation”; visto che abbiamo – paradossalmente – un Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei, che non ha mai deciso vere tasse europee.

Le nuove forme di tassazione dovrebbero gravare su quei soggetti che oggi pagano molto meno di quanto dovrebbero, perché sono in grado di avvantaggiarsi delle peculiarità e delle differenze fra i vari regimi tributari degli Stati membri (dovuta all’assenza di armonizzazione UE, ai fini della quale occorre un voto unanime al Consiglio).

Le ipotesi sono molteplici: una tassa europea sui redditi delle società capogruppo (holding company tax); una tassa europea sulle società (company tax); una tassa sulle transazioni finanziarie transfrontaliere; una tassa sui redditi degli operatori della rete internet (web tax); una tassa sui grandi inquinamenti transfrontalieri, così combattendo il cambiamento climatico (carbon tax).

Con un bilancio UE più capiente, si potrebbero attivare nuove politiche europee: per la difesa e la sicurezza, per le migrazioni; per stimolare l’economia in modo più ampio e incisivo, meglio bilanciando l’architettura dell’UEM, attraverso il rafforzamento della leva ‘economica’, con adeguati strumenti di sostegno/incentivo agli investimenti produttivi accanto a quelli di vincolo. Altrimenti la struttura non può che continuare a zoppicare. In particolare, gli strumenti di stimolo sono necessari per: (1) azionare realmente la leva di un ‘governo’ europeo dell’economia, oggi prevalentemente affidata ai vincoli della politica monetaria e alle regole sugli aiuti statali alle imprese, e solo marginalmente dipendente dai fondi di finanziamento UE; (2) bilanciare gli effetti asimmetrici, ereditati dalla crisi economica e finanziaria globale (2008-2013). Oggi sono sclerotizzati dal rigoroso rispetto dei parametri macroeconomici del deficit e del debito pubblico, che impediscono proprio agli Stati più indebitati, e più bisognosi di varare efficaci politiche anticicliche, di compiere gli interventi adeguati per far ripartire la propria economia.

Questi nuovi strumenti di bilancio potrebbero essere governati da un membro della Commissione con compiti, in buona sostanza, riconducibili a quelli di un ministro del Tesoro e delle Finanze. Detti strumenti e quest’ultima figura istituzionale possono istituirsi – senza che occorra emendare i Trattati – sia, e preferibilmente, in riferimento all’intera Unione Europea, sia in riferimento all’Eurozona.

4.   Una vera politica europea delle migrazioni

Come già detto, 7 su 10 cittadini europei sono favorevoli a una politica europea delle migrazioni e 5 su 10 la ritengono un compito europeo.

La grave, spesso drammatica, situazione avrebbe richiesto e richiede tuttora una maggiore iniziativa legislativa da parte della Commissione, per proporre un quadro legislativo compiuto, non limitato alle sole norme in materia di asilo, e articolato su 3 misure base: (1) punti di informazione e assistenza nei paesi di partenza dei migranti e nei paesi di transito, in grado di individuare già lì chi ha diritto all’asilo (o chi può trovare un lavoro nell’UE); (2) fondi significativi per investimenti, che migliorino seriamente le condizioni socio-economiche e formino dirigenti democratici nei paesi da cui partono i migranti (un grande ‘Piano per l’Africa’), scongiurando le partenze; (3) un sistema strutturato di rapida distribuzione fra gli Stati membri dei migranti che arrivano in Europa, in maniera da ripartire gli oneri complessivi relativi fra più Stati (per esempio, verifica dell’identità; eventuale riconoscimento dell’asilo; rimpatri, ecc.).

Basterebbe una decisione a maggioranza del Parlamento europeo e del Consiglio, su adeguate proposte normative (della Commissione!) per dar vita a una compiuta politica europea in materia di immigrazione, sulla base degli articoli 78 e 79 TFUE. Ci vuole un programma calendarizzato, un nuovo ‘libro bianco’ dedicato alle migrazioni.

5.   Una reale politica estera europea

I singoli Stati membri sono degli ‘gnomi’ politici sullo scacchiere internazionale odierno, sostanzialmente irrilevanti.

Già nell’Atto Unico Europeo si parlava di cooperazione in materia di politica estera, per allineare “i progressi realizzati in campo economico a quelli politici”. Sono trascorsi trent’anni e siamo ancora a uno stadio che potrei generosamente definire primordiale.

Il ruolo effettivo dell’Unione e dell’Alto Rappresentante è minimo, spesso irrilevante o assente negli scenari di crisi, e ha un’incisività scarsissima.

La ragione base sono i meccanismi decisionali che prevedono l’unanimità per ogni decisione di rilievo; e le divisioni fra i governi nazionali, gelosi delle proprie prerogative e poco disponibili a condividerle a livello UE.

I governi nazionali devono trovare un accordo affinché, in seno al Consiglio, le decisioni si possano prendere a maggioranza qualificata nel quadro di una vera politica estera europea di sicurezza e di difesa comune.

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