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Dassù: Spendere di meno, contare di più. La quadratura (quasi) impossibile (La Stampa)

Dopo le analoghe osservazioni di Lucia Annunziata su «La Stampa», ieri Angelo Panebianco apriva il suo editoriale sul Corriere della Sera con una frase significativa: «Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te». Questa frase sottolinea, nel giorno in cui il nostro Paese si stringe attorno alla famiglia di Franco Lamolinara, vittima del terrorismo in Nigeria, le oggettive fragilità dell’Italia nel contesto globale di oggi.


Panebianco la utilizza per argomentare che un governo sprovvisto di un mandato elettorale esplicito potrebbe non avere lo stesso interesse di un governo pienamente politico a gestire le crisi internazionali extra-economiche. E una tesi che sarà anche interessante motivo di studio per i politologi. Ma che trascura il punto essenziale: sono decenni che l’Italia continua a ridurre gli strumenti che le permetterebbero di rispondere meglio alle crisi.


Lasciatemi prima chiarire due punti di contesto. Primo: le debolezze dell’Italia, di fronte ai rischi diffusi di oggi, sono le debolezze della Francia o della Spagna o di qualunque altro Paese che abbia una posizione geopolitica esposta e parecchi suoi connazionali che agiscono e lavorano nel mondo. Tutti i Paesi europei che si trovano in condizioni simili hanno subito rapimenti, hanno cercato alternative diverse per salvare gli ostaggi e hanno avuto, purtroppo, delle vittime. E’ una nostra pessima abitudine nazionale sentirci peggio degli altri sempre e comunque: è una specie di versione sfiduciata, pessimista, rovesciata, dell’«eccezionalismo» all’americana. In realtà, pirateria e rapimenti investono l’Italia esattamente come investono gran parte dei Paesi europei. Ed è pura mitologia che l’Italia abbia una sua «via» alla liberazione degli ostaggi. All’opposto, l’eccezione alla regola è che gli anglo-sassoni tentano ogni tanto un blitz militare: qualche volta riuscendo, altre, come purtroppo in questo ultimo caso, fallendo e sacrificando anche il loro connazionale. Secondo punto: usare le difficoltà internazionali ai fini delle polemiche interne è sempre sbagliato, perché aumenta la vulnerabilità di un Paese proprio quando avremmo bisogno di ridurla. Certo: è giusto, è dovuto, che un governo spieghi i suoi comportamenti internazionali, informi il Parlamento e che si sentano i Servizi. E’ giusto e dovuto che il governo di Roma esiga da Londra tutti i chiarimenti necessari sul ritardo di comunicazione in Nigeria. E si interroghi sulle proprie responsabilità. Ma è sbagliato – nel senso che il danno aumenta per il Paese nel suo complesso – trasformare una crisi internazionale in materia aprioristica di polemica interna. L’interesse nazionale è opposto. Ed è prematuro decidere che tutto dipende da errori comunque nostri: è un’altra pessima abitudine nazionale quella di oscillare fra il «noi non c’entriamo» al «è tutta colpa nostra».


E vengo così all’interrogativo di fondo del dibattito di questi giorni, che non voglio affatto eludere: le difficoltà in India, sommate alla tragedia in Nigeria, dimostrano che l’Italia ha perso peso internazionale? SI, ma questa perdita relativa di influenza non dipende da incapacità politica; è il prodotto di due fattori, uno esterno e l’altro «soggettivo». Il fattore esterno lo conosciamo benissimo: la «diffusione» del potere economico e politico verso nuove potenze, come l’India appunto; e verso una quantità di nuovi attori in buona parte rivali dell’Occidente. In un mondo del genere («No one’s world» lo definisce lo storico americano Charlie Kupchan), un Paese come l’Italia risulta inevitabilmente ridimensionato. Il fattore soggettivo – e qui sono d’accordo con Panebianco, Annunziata e molti altri – è che l’Italia ha continuato ad illudersi, anche dopo la fine delle rendite di posizione del dopoguerra, di potere non occuparsi di sicurezza. Basta guardare ai tagli progressivi che hanno subito, negli ultimi dieci anni, tutti gli strumenti dell’azione esterna: dal bilancio della Farnesina, agli investimenti nella Difesa, al taglio brutale della cooperazione allo sviluppo.


E’ questa la discussione vera che dovremmo aprire. Se il risanamento del bilancio aumenta il nostro standing in Europa ma riduce il nostro standing nel mondo, quali sono le opzioni che restano? Una risposta possibile è: le economie di scala. Usare la credibilità riacquistata in Europa per spingere – finalmente – a qualcosa di più e di vero nella politica estera e di sicurezza europea. I casi dell’India e della Nigeria dimostrano, in modi diversi, che siamo ancora lontani da tutto ciò. Mentre è molto vicino il punto in cui la quadratura del cerchio sta diventando impossibile: tagliare via gli strumenti e gestire bene le crisi è impresa ardua. Per chiunque governi.

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