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Come si salva l’Italia

«Non ho scritto questo libro per il piacere di scrivere, l’ho scritto per amore: amore verso la mia gente, verso il mio Paese, verso il mio Signore» (e verrebbe da aggiungere: amore “verso la Verità”). Così ci racconta l’arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte — don Bruno come lo chiamano i suoi fedeli — alla presentazione del suo ultimo volume Perché il Vangelo può salvare l’Italia (Milano, Rizzoli, 2012, pagine 160, euro 15) nel Teatro Marrucino di Chieti.


L’opera del teologo, basata su vari editoriali apparsi tra il 2010 e il 2011 su «il Sole 24 Ore», ha per oggetto la decadenza dell’Occidente e dell’Italia e può esser letta tutta d’un fiato tanto è appassionante il tema, quanto scorrevole la prosa.


Andando più in profondità, si rinvengono tre piani di lettura: il primo, filosofico-teoretico; il secondo, etico o spirituale; il terzo, pragmatico e politico. Il primo livello attiene alla ricerca della genesi del declino; il secondo alla terapia morale, “percorso di speranza” per contrastare e invertire la tendenza; il terzo agli effetti della decadenza sulla vita della pòlis e al conseguente quid agendum?


È indubbio che l’Italia viva una fase acuta di deficit etico e identitario sfociata in una contrapposizione violenta fra le forze politiche che ha portato la normale dialettica a livelli esasperati e insostenibili. Monsignor Forte prende le mosse proprio dalla crisi morale che ha investito la nostra società. La storia recente ha difatti messo in luce una progressiva distorsione del rapporto di rappresentanza fra elettore ed eletto e del rapporto di servizio fra amministratore e amministrato.


Il deficit etico altro non è se non «lo smarrimento delle regole minime del bene comune», quando la politica invece di mettersi al servizio del cittadino finisce per asservire il cittadino agli interessi di oligarchie, di censo o di casta. Ne consegue un deficit identitario, perché i cittadini, non riconoscendosi in questa politica, smarriscono anche il senso di comune appartenenza a una nazione, a un sistema, a un progetto condiviso. Da qui le pulsioni anti-politiche e anti-nazionali che attraversano trasversalmente la nostra società.


E l’autore, con toni pacati ma fermi, dice che c’è una sola via per contrastare questa degenerazione: una nuova pedagogia politica che torni agostinianamente a privilegiare la veritas invece che la vanitas: la prima misura le scelte sui valori etici permanenti; la seconda crea una «civiltà della maschera che indulge all’assuefazione davanti al male, al perbenismo di facciata, alla ricerca del facile consenso, al consumismo esasperato e all’edonismo rampante».


Occorre un ritorno alla politica come servizio gratuito, disinteressato e temporaneo secondo l’esempio dei padri fondatori della nostra Repubblica e del grande progetto europeo (molti dei quali non a caso — Adenauer, Schuman, De Gasperi — erano genuinamente cristiani).


Più in dettaglio: nella sfera politico-amministrativa si deve colmare il divario creatosi «fra autorità ed effettiva autorevolezza dei comportamenti, fra rappresentanza democratica e reale rappresentatività dei bisogni e degli interessi dei cittadini»; nell’ambito culturale-educativo, investire in formazione e privilegiare il rispetto del patrimonio culturale, artistico, religioso a scapito dell’effimero dilagante; nel campo ecologico-territoriale, favorire modelli che non siano avulsi dalla considerazione dell’ambiente, delle risorse umane, delle componenti spirituali; nel settore economico, ispirare «un’azione orientata alla partecipazione di tutti ai beni e al coinvolgimento dei più deboli» e non alla semplice massimizzazione del profitto e dell’interesse privato.


L’etica, infine, è il campo di applicazione più profondo della dialettica verità-vanità proposta da sant’Agostino: respingere una morale individualista e utilitaristica finalizzata all’interesse di pochi e affermare il primato della responsabilità verso gli altri, della solidarietà, dei diritti dei più sfavoriti.


Le due grandi encicliche di Papa Benedetto (Deus caritas est e Caritas in veritate) sembrano echeggiare come musica di fondo di questo scenario, nell’assunto che ogni decisione di carattere politico, economico, sociale non può prescindere da una dimensione etica. Questa è in definitiva l’essenza stessa della caritas paolina che deve sempre coincidere con la veritas, quella Verità che — nelle parole di Gesù riprese nel Vangelo di Giovanni — ci rende liberi .


Da tali premesse l’Autore approda ad altri temi di particolare attualità: il rapporto con “l’altro-da-sé” e la questione dell’incontro-scontro di civiltà; una filosofia della storia che ci riporti a una visione escatologica e non nichilistica del nostro cammino; la sfida del dolore; il superamento della morte nell’octava dies. L’ultima parte è dedicata al grande codice della Bibbia, e in particolare del Vangelo.


E concludiamo con la frase che sembra riassumere meglio il senso di quest’opera: «vivere rettamente non è solo giusto ma anche necessario e utile alla crescita della casa comune, alla bellezza e dignità della vita di tutti». Questa è la via maestra, sul piano individuale, per dare un senso alla nostra esistenza; e su quello comunitario, per invertire il lungo declino del nostro Paese: il ritorno alla verità, all’obbedienza e al servizio morale.


(*) Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede

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