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Terzi: «Quei 50 caduti in Afghanistan come le vittime del terrorismo» (Corriere della Sera)

Roma — «I militari italiani caduti in Afghanistan hanno lo stesso valore degli italiani che persero la vita nella lotta al terrorismo», diceva ieri il ministro degli Esteri Giulio Terzi. Nel Paese insidiato dai talebani il nostro contingente conta ancora 4.200 persone in divisa, il conto delle sue vittime dal 2002 è salito la settimana scorsa a 50. In un’intervista al Corriere, per oltre un’ora, l’ambasciatore diventato ministro lo scorso novembre ha dato le sue risposte a domande che si pongono in molti. Che cosa fanno lì i nostri soldati? Che senso ha tenerli ancora laggiù?


I militari italiani, mercoledì, hanno respinto in Gulistan un attacco a un convoglio di forze afghane. Il comando per l’Ovest della missione International security assistance force (Isaf) ha riferito che i ribelli hanno subìto perdite «importanti». Che cosa significa? Quanti ne sono stati uccisi?


«L’informativa che ho ricevuto è su un’operazione che ha avuto successo e si accompagna a episodi di azioni di deterrenza, piuttosto frequenti, compiute dalle nostre forze nel territorio di competenza. Non ho i dettagli. Quello che le posso dire è…».


È?


«… è che nella zona Ovest dell’Afghanistan, affidata a noi, la transizione verso il passaggio di responsabilità alle autorità afghane è quasi completata. Nei prossimi mesi rimarrà fuori una piccola parte del territorio. Abbiamo fatto un ottimo lavoro stando alla valutazione unanime, non esclusivamente nostra, anche dell’inviato degli Stati Uniti per Afghanistan e Pakistan Marc Grossman, che ho incontrato mercoledì. Abbiamo piani per costruire strade, abbiamo presentato al presidente Hamid Karzai un progetto per l’aeroporto di Herat…».


Però dal 2002 a oggi di militari italiani in Afghanistan ne sono morti 50, dei quali 18 per incidenti e malattie e gli altri ammazzati. Dopo l’invasione sovietica del 1979, un settimanale titolò: «Morire per Kabul?». La domanda si ripropone: il grosso dei contingenti stranieri andrà via entro il 2014 e l’Italia sabato ha perso sotto colpi di mortaio il sergente Michele Silvestri. Ha senso oggi morire per Kabul?


«Cinquanta italiani caduti è una realtà tristissima. Il valore di queste persone che si sacrificano con senso dello Stato è come quello di chi nel nostro Paese ha combattuto il terrorismo. I nostri soldati combattono il terrorismo in un posto importante: l’Afghanistan può essere un fattore di stabilizzazione del subcontinente indiano invece di essere il contrario. Immaginiamo che cosa succederebbe se tornasse a essere un failed State (Stato fallito, com’era quando era base di Osama bin Laden prima dell’11 settembre 2011, ndr) o se lo diventasse il Pakistan. E’ in gioco anche la nostra sicurezza».


Senza negare la necessità di agire da alleati degli Stati Uniti, viene da chiedersi: come si può ottenere consenso tra gli afghani se tra le forze americane ci sono alcuni che hanno bruciato il Corano, qualcuno che impazzendo ha ucciso 16 persone, un gruppo che ha oltraggiato cadaveri di talebani, altri che guidarono il bombardamento del 2011 nel quale morirono oltre confine 24 militari pachistani? Non costituisce un problema per un alleato come l’Italia?


«Sono problemi che hanno tutti i Paesi che hanno uomini in Afghanistan. In ogni caso, non può che esserci grandissima ripulsa per quei segni di disprezzo e oltraggio verso la fede di uno che rappresenta l’oppositore, il nemico. Ci deve incoraggiare ancora di più alla massima attenzione nella formazione del personale».


Quelli non restano fatti gravi?


«Sono situazioni dalle quali stiamo uscendo, ma richiedono uno sforzo ulteriore che non era auspicabile. Bisogna formare sempre meglio, e credo lo si sia anche fatto. L’Onu ha compiuto sforzi per evitare gli incidenti che in passato, purtroppo, hanno caratterizzato con abusi la sua presenza in alcune nazioni».


Il capo della maggioranza democratica al Senato americano, Harry Reid, nel commentare alcuni insuccessi statunitensi in vista del ritiro entro il 2014 ha detto: «Penso siamo sul binario giusto per venir via dall’Afghanistan soltanto appena è possibile». La Francia ha riportato a casa 200 soldati, ne lascia 3.200. Noi ne manteniamo circa 4.200. Perché dovremmo avere meno fretta?


«Non abbiamo né più né meno fretta dei nostri alleati. Grossman mi ha fatto presente che se ci saranno le condizioni, si valuteranno e si apporteranno modifiche. Ma nulla mi fa pensare che ci saranno motivi operativi, o decisioni politiche, tali da cambiare quella traiettoria. Durante il 2013 trasferiremo la responsabilità alle forze afghane».


Karzai ha dichiarato che la Nato dovrebbe restare nelle basi e che alla sicurezza ci penserebbero già le sue forze. A che gioco gioca? E’ propaganda per restare presidente dopo il 2014?


«No, anche un malessere che giustamente manifesta per la serie di incidenti da lei citati prima. Che non dovrebbero accadere e ai quali si deve reagire».


Il rientro degli italiani non comincerà prima della fine del 2012. È così?


«Non abbiamo ancora calendari. Abbiamo l’obiettivo di far rientrare gran parte del nostro contingente per la fine del 2014».


Mentre l’Italia e altri Paesi le addestrano, tra le forze di sicurezza locali sembrano in crescita i casi di afghani che sparano su stranieri.


«L’aumento dell’integrazione tra forze straniere e afghane aumenta il rischio di infiltrazioni. Sono episodi che destano preoccupazioni, ma non hanno dimensioni che richiedono un cambio di strategia. Non è una valutazione mia. E’ dell’Isaf».

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