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Terzi: «Migliaia di uomini e armati potrebbe servire una missione più robusta». (la Repubblica)

ROMA —Quindici osservatori italiani sono in partenza per la Siria in questi giorni: il nostro contributo alla missione Onu di 300 uomini prevista dal piano di pace Annan. «Ma è probabile che non sia sufficiente e che si debba tornare al Consiglio di sicurezza», avverte il ministro degli Esteri Giulio Terzi. «Per chiedere una forza più robusta, fino a 2-3000 uomini — spiega— e in grado di intervenire in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Una missione cioè armata, capace di garantire la protezione di alcune aree e la sicurezza degli osservatori che oggi è invece affidata al governo siriano».


Ministro Terzi, il capitolo VII, che contempla l’utilizzo della forza, è stato alla base dell’intervento armato in Libia. Sta prefigurando per la Siria lo stesso scenario?


«Il modello libico è irripetibile. Ma il capitolo VII è stato utilizzato in molte altre occasioni. E in tante altre avrebbe potuto evitare massacri, come quello di Srebrenica».


Crede che Russia e Cina possano approvare una missione armata?


«Per ora no, ma potrebbero farlo se si convincessero che la situazione non è più accettabile. Noi crediamo nel piano di pace Annan, ma con preoccupazione e perplessità. Damasco sta utilizzando una forza spropositata, inimmaginabile anche in presenza di un’insorgenza. Azioni anti -terrorismo con cannoni da 120 mm».


Non è un paradosso approvare l’invio di nostri uomini e dubitare cosi fortemente dell’efficacia della missione?


«Un dubbio, non una bocciatura. Il regime continua a comportarsi in modo violento, non ha ritirato i soldati nelle caserme, non ha dato accesso umanitario ovunque, non ha garantito libera circolazione alla stampa. Ma qualcosa si muove, c’è qualche inizio di applicazione delle richieste del piano Annan. Bisogna vedere che impatto potrà avere la missione quando sarà dispiegata totalmente. O magari si creerà una situazione alternativa nel regime, provocata dall’entourage di Assad».


Un golpe?


«Un’uscita gestita del presidente, sul modello Yemen».


Quattordici mesi e Assad è ancora al suo posto. Un errore di valutazione da parte della comunità internazionale sulla tenuta del regime, sulla capacità dell’opposizione di sollevare la massa critica del popolo?


«Non abbiamo mai pensato che le cose potessero risolversi rapidamente. Assad ha il controllo totale delle forze armate, un forte collegamento con la Russia e con l’Iran che assicura forniture militari».


Tra i diplomatici si fanno strada dubbi anche sul Consiglio nazionale siriano, il frammentato cartello delle opposizioni. Stiamo scommettendo sul cavallo sbagliato?


«Il Cns è molto diviso, ma è l’interlocutore che la comunità internazionale ha individuato. Nel fine settimana i membri del consiglio direttivo saranno ospiti in Italia: il nostro ruolo è quello di aiutarli a ricomporre le loro divisioni interne».


L’intelligence Usa ha riconosciuto la mano di Al Qaeda dietro gli attentati kamikaze a Damasco e ad Aleppo. Il protrarsi del conflitto è un terreno di coltura per l’estremismo e il terrorismo?


«Temiamo Al Qaeda, trae profitto da una situazione di guerra civile e potrebbe radicarsi nel territorio siriano così come è avvenuto in Iraq, nella provincia di Anbar. Per noi è un rischio, ma molto di quello che è venuto dalle primavere arabe è rischioso. Certo però non sono da rimpiangere le condizioni dei popoli che vivevano sotto BenAli, Mubarak o Gheddafi».


Scontri tribali, violenze anche nel cuore di Tripoli. La Libia sta implodendo?


«Aspettiamo le elezioni di fine giugno. Speriamo che il consolidamento istituzionale sia rapido per consentire gli interventi sociali che sono la vera urgenza del paese».


Una Libia destabilizzata riattiva il rischio della “bomba immigrazione” per l’Italia?


«Non come quando Gheddafi la usava scientemente contro di noi. Ma, certo, se le frontiere non sono protette il traffico delle persone diventa un’emergenza».


Il nucleare iraniano. A fine giugno devono entrare in vigore le sanzioni sul petrolio. Da più parti arrivano indizi di una disponibilità della guida suprema Khamenei a trattare. L’Europa è incline a fare qualche passo distensivo?


«Ci sono voluti nove anni per arrivare alle sanzioni petrolifere. Per ottenere concessioni, uno slittamento dell’entrata in vigore di quelle misure, Teheran dovrebbe dare all’Aiea garanzie importanti sul piano delle verifiche, consentendo delle ispezioni molto intrusive. Ma sono scettico».

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