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Dettaglio intervista

«Certo che siamo in ritardo sulle violenze in Siria. A quest’ora potremmo avere 10 mila persone vive anziché 10 mila vittime» dice il ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, sull’aereo che lo sta riportando a Roma dal Libano. È stato in visita ai militari italiani, schierati nel sud del paese, e alle principali autorità libanesi, a Beirut. La sensazione, nella piccola repubblica stretta fra Siria e Israele, è che una svolta sia vicina: «Il conto alla rovescia per il regime di Bashar el-Assad è iniziato» valuta il ministro Terzi. «Anche in un ambiente come quello libanese, molto prudente per via degli intrecci che lo legano alla Siria, mi è stato detto più volte: “Assad ha varcato il punto di non ritorno”. Altri, contestati dalle rivolte della Primavera araba, si sono fermati sull’orlo del precipizio. Assad ci sta scendendo».


Non si rischia ancora una volta di darlo per morto troppo presto?


Ormai no, il presidente Assad sta perdendo terreno anche fra i suoi sostenitori siriani, che ora capiscono quanto lui li stia danneggiando.


Il regime, però, può contare sull’appoggio della Russia. Sembra che persino l’arma con cui è stato abbattuto un caccia F-4 turco, la settimana scorsa, fosse russa, appena consegnata.


Non è chiaro quale arma abbia abbattuto il caccia turco, ma il gesto è deprecabile: l’aereo era ben riconoscibile, perché tutti i sistemi di riconoscimento elettronico erano attivati. Non sembra proprio che sia stato un incidente.


Allora perché decidere un’azione così aggressiva? Il fatto che la notizia sia stata data da emittenti vicine al regime (Al-Manar, voce del partito armato libanese Hezbollah, e Al-Mayadeen, tv pro Assad spuntata da poco in Libano) non le fa sospettare che sia il presidente siriano a cercare lo scontro?


Assad ha alzato senza sosta il livello di violenza e ora cerca di portare la destabilizzazione fuori dai suoi confini: può farlo favorendo flussi di migranti o con attacchi come questo. Penso tuttavia che la condanna internazionale all’abbattimento del caccia turco abbia dato un segnale importante. Ormai anche i russi hanno cambiato idea e stanno lavorando per frenare il regime. Credo che anche l’opposizione da parte della Cina cadrà, quando Mosca si schiererà ufficialmente contro Assad.


Non rischiamo di lasciare il tempo per altri massacri?


È la domanda che ci si fa ogni volta che entra in campo l’Onu: vista la sua lentezza, a che cosa serve? L’Onu è stata una grande rivoluzione, è un sistema che funziona, ma purtroppo servono sempre degli shock per smuovere la comunità internazionale e trovare un accordo.


Nel frattempo, secondo il «New York Times», gli americani si danno da fare, usando la Cia per armare i ribelli (vedere anche l’articolo a pagina 40).


Ho letto queste notizie, ma non ne ho ricevuto conferme dirette. Personalmente non sono d’accordo: non si devono armare i ribelli. L’Italia non ha mai pensato di incoraggiare gruppi islamici presenti in Siria né di armare l’opposizione. Per noi bisogna seguire l’esempio del Dialogo nazionale libanese: riunirsi tutti attorno a un tavolo (al quale Assad, ormai, non si potrà sedere). In Libano sta funzionando, in Siria toglierebbe elementi alla retorica del regime.


Ci si può fidare dell’opposizione siriana?


È già difficile fidarsi degli amici nei momenti di pace, figurarsi di questi interlocutori in situazioni di conflitto.


Non rischiamo di consegnare il paese alle bande armate, come è successo in Libia? L’operazione libica si doveva fare, per evitare un genocidio. Ora ci sono ancora problemi, certo, ma io vedo una società che sta per maturare sul piano democratico. Attenzione, però: l’intervento libico non è assolutamente un modello replicabile.


La preoccupa il fatto che negli altri paesi della Primavera araba, invece, vincano i partiti islamisti?


In realtà mi ha impressionato molto positivamente il modo in cui, in Egitto, è stato riconosciuto vincitore il candidato presidente dei Fratelli musulmani. La commissione elettorale, volendo, aveva a disposizione centinaia di rilievi per tirare a campare. I commentatori sono liberi di dire che gli islamisti egiziani hanno vinto solo una scatola vuota, io invece devo valorizzare i segni positivi e fare in modo che la nuova costituzione sancisca principi come, per esempio, il pluralismo. È lo stesso che stiamo facendo con la Tunisia.


Il nostro sforzo per «esportare la democrazia» è finito?


L’idea che si potesse esportare la democrazia non ha mai convinto gli europei, nemmeno quelli che, alla fine, avevano seguito la linea di George W. Bush. Al tempo della guerra in Iraq ero perfettamente convinto che dovessimo intervenire. Ma in Iraq poi sono stati commessi errori colossali: parlo dello smantellamento immotivato del partito che sosteneva Saddam Hussein, della sottovalutazione dell’influenza dell’Iran, dell’idea che la popolazione irachena aspettasse solo la liberazione e tutto il resto passasse in secondo piano. Si sono segati pilastri che invece erano fondamentali per dare stabilità.


Ci siamo ritirati dall’Iraq ma non dall’Afghanistan. Visti gli esiti, ha senso restare? Non ce ne andremo prima del 2014, è escluso: qualsiasi accelerazione del ritiro crea anche problemi di sicurezza per i nostri soldati.


Quando torneranno, invece, i nostri marò arrestati in India?

È difficile dirlo, di sicuro noi spingiamo perché tornino il prima possibile. Questo è un incidente che ha creato un’esigenza di nuove regole in tutto il mondo: lei si immagina un soldato di un contingente ugandese o indonesiano che, mentre opera in un paese straniero, viene improvvisamente accusato di un crimine e viene messo in carcere? È inimmaginabile.

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