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Dettaglio intervista

«Il Libano è molto esposto ai venti di guerra e di tensione che scuotono la vicina Siria. Occorre fare di tutto perché si ponga fine alle sofferenze del popolo siriano prima che il conflitto si regionalizzi e investa pesantemente il Paese dei Cedri».
A lanciare l’allarme è Staffan De Mistura, vice ministro degli Esteri italiano, già Rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Iraq (2007) e Afghanistan (2010).


Mentre In Siria si continua a combattere e a morire, in Libano si susseguono scontri armati, nella regione di Tripoli, tra sunniti e alauiti. C’è il rischio che la guerra siriana si propaghi anche nel Paese dei Cedri?


«Questo rischio esiste e va assolutamente scongiurato. Il Libano è sempre stato la cassa di risonanza e di compensazione di crisi che esplodevano nei Paesi vicini. In secondo luogo, il Libano è un mosaico di tutte le varie componenti religiose e culturali mediorientali. Terzo motivo di preoccupazione sta nel fatto che gli scontri divampati nella regione di Tripoli hanno visto fronteggiarsi sunniti e alauiti e c’è chi può avere l’interesse a spargere altro olio sul fuoco».


Il riferimento è alla vicina Siria? II clan Assad è alauita.


«Diciamo che anche in passato c’è stata da parte delle autorità alauite la volontà di lanciare messaggi trasversali tramite il Libano».


Ad esempio?


«Quando il processo per l’uccisione dell’ex premier libanese Rafik Hariri stava andando in maniera accelerata nella direzione di Damasco, ecco scatenarsi un’ondata di attentati contro personalità libanesi che sostenevano questa accelerazione mettendo in risalto le responsabilità del regime siriano in questa strategia del terrore. Non dimentichiamo che la guerra civile libanese iniziò proprio quando una comunità cominciò a sostenere la posizione di una minoranza, supportata dall’esterno, scatenando così un incendio che dilaniò il Paese».


Stiamo dunque entrando in una spirale incontrollabile?


«In precedenza non ho nascosto questo rischio, ma come Italia siamo fiduciosi che il Libano riuscirà a contenere questo pericolo. E per tre ordini di ragioni: la prima, è che il governo del primo ministro Najib Mikati ha dimostrato finora una grande capacità di equilibrio politico, fondamentale per evitare un contagio di grandi dimensioni. In secondo luogo, perché l’esercito libanese ha dato prova di volersi frapporre tra le due comunità quando gli scontri tra sunniti e alauiti a Tripoli sono arrivati a un livello di guardia. Il terzo motivo di speranza è che i libanesi in generale – un popolo intelligente ed estremamente creativo – ha imparato, a mio parere, la lezione di quella tragica pagina di storia che è stata la guerra civile. A ciò aggiungerei che la comunità internazionale, con l’Italia in prima fila, ha dimostrato e continuerà a dimostrare l’intenzione di sostenere la stabilità del Libano».


In questo quadro, che valenza assume l’attesa visita a Beirut di metà settembre dl Benedetto XVI?


«Il Santo Padre è molto rispettato in Libano e questo rispetto va oltre la comunità cristiana. La sua visita in questo delicato momento potrebbe essere giustamente interpretata come un gesto di affetto e di attenzione verso un popolo che merita la stabilità e che, essendo uno straordinario mosaico di religioni e di etnie, può dimostrare che anche quando ci sono tragedie come quella che i libanesi hanno alle loro frontiere, questo mosaico può rimanere intatto».


Resta però il rischio contagio.


«Il fattore tempo è decisivo. Cosi come la chiarezza d’intenti. Il primo dei quali è porre fine al più presto alle sofferenze del popolo siriano. E ciò deve avvenire anche per evitare che il conflitto si regionalizzi investendo in pieno il vicino Libano. Noi abbiamo fiducia che questo non avvenga e alla base di tale fiducia c’è il fatto che i libanesi sono i primi ad essere consapevoli degli effetti devastanti di questa regionalizzazione del conflitto e di ciò che significhi diventare il campo di battaglia di una guerra ispirata e combattuta per conto terzi».


In Libano è presente da tempo la missione Unifil 2 a guida Italiana. Una missione nata con II contributo decisivo, e riconosciuto, dell’Italia e con un forte investimento europeo. Nel tormentato, e nevralgico, scenario mediorientale c’è oggi ancor più bisogno di Europa?


«Direi proprio di sì. Parlo anche per esperienza diretta: l’Europa viene considerata un partner naturale dai Paesi mediorientali e l’Europa, a sua volta, si rende conto che il Mediterraneo è l’unica cosa che ci separa da questa grande frontiera che è il Medio Oriente. Il dialogo e la cooperazione sono decisivi, sono una via da percorrere con assoluta convinzione. Abbiamo tutti l’interesse che le Primavere arabe non diventino un’Estate troppo calda».

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