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Dettaglio intervista

Ad oltre vent’anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Russia non ha adottato (ancora?) un modello di democrazia liberale di tipo europeo. Non è neanche diventata – nonostante il “reset” dei rapporti Usa-Russia in epoca obamiana – un convinto alleato degli Stati Uniti. Come molti, con troppa fretta, avevano predetto. La Russia post-sovietica, per aggiustamenti successivi, ha seguito una sua strada e ha scelto un modello istituzionale proprio. Sul piano geopolitico, Mosca continua a guardare verso Occidente e ne ha bisogno per la modernizzazione della propria economia. Ma non c’è dubbio che la scelta “pro-West” compiuta nei primi anni post-sovietici sia apparsa all’elite russa, con il passare del tempo, sempre meno remunerativa. Dall’intervento in Iraq, alla questione dello scudo spaziale, alla gestione del dossier Iran, alla guerra di Libia, la Russia ha condiviso poco o niente delle strategie occidentali: in sostanza, ha ritenuto di dare senza ricevere. Sul lato opposto, l’Europa ( o meglio una sua parte) ha puntato verso una partnership strategica sempre più cementata dagli interessi ma poco ancorata a valori condivisi. Mentre l’America ha prima pensato di potere “perdere” la Russia senza troppi costi e ha poi cercato di recuperarla, ma senza riuscirvi fino in fondo. Tanto meno oggi, nel pieno della campagna elettorale. In sintesi: il triangolo Russia/Europa/Stati Uniti è caratterizzato da reciproche frustrazioni.


Se questo – il tasso di frustrazione reciproca – è un dato da cui è impossibile prescindere, altrettanto o ancora più rilevante è l’assenza di alternative reali alla collaborazione reciproca. La tragedia siriana è un utile, anche se penoso reminder di entrambi questi dati.


Guardiamo prima alle opzioni a disposizione di Mosca. Sulla carta, la Russia potrebbe tornare a valutare in termini positivi quella vecchia “opzione asiatica” che è sempre stata parte del dibattito interno sulla collocazione del paese e che, di recente, è stata riproposta da Sergey Karaganov in un Rapporto del Gruppo di Valdai. Solo due anni fa, Karaganov aveva sostenuto l’obiettivo di un’alleanza fra le due “potenze declinanti” – Russia ed Europa – per prevenire la marginalità di entrambe sulla scena globale. Oggi, propone invece un ribilanciamento verso l’Asia della politica russa: un’opzione Asia-Brics, si potrebbe definire così, resa inevitabile dalla crisi dell’euro-zona e dall’esigenza di agganciare Mosca alla crescita della Cina. La tesi di uno dei più influenti politologi di Mosca, è che la Russia sia costretta dalle dinamiche economiche globali a superare un euro-centrismo di stampo ottocentesco, che di fatto considera ancora la Russia un Paese europeo con “possedimenti coloniali” in Oriente. E per farlo, la Russia deve cominciare a vedere nei territori asiatici della Federazione non più un peso (o addirittura una minaccia, guardando allo squilibrio demografico con la Cina alle frontiere siberiane), ma come un “atout” che potrebbe garantirle un ruolo primario in Asia orientale. Immaginando il futuro di una Russia in grado di giocare un suo ruolo a cavallo dei continenti, la capitale economica della Federazione dovrebbe diventare Vladivostok, quella politica resterebbe a Mosca e quella culturale sarebbe a San Pietroburgo.


Come sempre, gli scenari sono più affascinanti della realtà. E la realtà è che sembra difficile immaginare un simile “rientro” della Russia in Asia orientale, viste le rivalità strategiche sottostanti con la Cina, il peso del fattore Usa negli equilibri del Pacifico, le persistenti difficoltà con il Giappone e la scarsa complementarietà dell’economia russa con le economie asiatiche. In sostanza: i tempi non sembrano in realtà così maturi, nonostante la creazione di organismi come l’organizzazione di Shanghai (SCO), per un ri-posizionamento ad Est della Russia.


Più modestamente, la Russia ha per ora combinato all’opzione europea, che resta dominante, un tentativo di riaffermazione nella sua area più tradizionale di influenza:l’estero vicino, l’Europa Orientale, il Caucaso, l’Asia Centrale. E’ la cosiddetta scelta “euroasiatica”, sostenuta da vari esponenti del variegato schieramento culturale e politico che si ispira al nazionalismo russo. Nella visione euroasiatica, la Russia è culturalmente legata all’Europa, ma capace di trarre dalla sua storia e dalle sue tradizioni modelli di sviluppo e organizzazione sociale originali e indipendenti dalla “suggestione” occidentale. Torna ad avere peso il mito dell’Eurasia come continente geopolitico posto tra Occidente e Oriente, senza che la Russia appartenga pienamente all’una o all’altra parte. Negli anni di Vladimir Putin, il mito euroasiatico, che ha radici antiche, ha assunto la veste di un disegno politico apparentemente più coerente, ma mai alternativo alla centralità dei rapporti con l’Europa. In questa ottica, è possibile inquadrare la proposta lanciata nel 2010 di un’Unione Doganale con Belarus e Kazakhstan – da gennaio diventata Spazio Economico Comune, retto da una Commissione la cui struttura è ricalcata sulla Commissione UE – e l’eventuale varo nel 2015 dell’Unione Euroasiatica.


Queste iniziative a carattere apparentemente economico hanno in realtà un preciso obiettivo politico, che è quello di mantenere legate alla Russia i principali Paesi del suo vicinato, condizionando così il resto degli aspiranti a rapporti con l’Unione Europea e la NATO; qui la vera posta in gioco è la collocazione dell’Ucraina, che coltiva ambizioni europee e che ha finora rifiutato di aderire all’Unione Doganale. Alla stessa finalità, ma perseguita con metodi ben più spicci, rispondeva l’intervento in Georgia nel 2008, quale conferma del ruolo egemone di Mosca nella regione.


Il Presidente russo, d’altra parte, ha un approccio essenzialmente pragmatico. Tornato al Cremlino, ha confermato di volere combinare una politica estera assertiva con la ricerca di una crescente collaborazione tecnologica ed economica con gli Stati Uniti e l’Europa. Resistendo alle pressioni interne, Putin ha portato a compimento la lunga, faticosa adesione della Russia all’OMC. Sul piano strategico, ha confermato la collaborazione con la NATO sul dossier Afghanistan. E nell’insieme, Putin non ha smentito, nonostante la crisi dell’euro-zona, la direttrice strategica verso l’Ue.


Dal punto di vista del Cremlino, Europa significa Germania, anzitutto. E poi Italia. Non è un caso che, negli incontri con Merkel e Monti, il capo del Cremlino abbia sottolineato non solo l’importanza della collaborazione industriale ma anche l’intenzione di mantenere l’elevato livello di riserve valutarie in Euro, superiore al 40%. In breve: per una Russia non proprio ben messa (fra trend demografici e scosse socio-politiche interne, indice del malcontento di settori delle classi urbane), e per un paese che si sente esposto alle possibili onde d’urto delle rivoluzioni arabe, l’ancoraggio europeo resta comunque una garanzia di stabilità.


Nel perseguire questa politica – la modernizzazione almeno come ispirazione ricorrente attraverso il rapporto con l’Occidente, concedendo qualcosa ma non troppo alle spinte nazionaliste (e nel qualcosa rientra la legge restrittiva sui finanziamenti esteri alle Ong) e rivendicando l’autonomia delle proprie politiche interne (il neo-sovranismo ha anche qui i suoi teorici) – Putin 2 può contare ancora sulla sua vera leva di influenza: la saldatura fra settori importanti dell’establishment economico e settori dei “siloviki” (gli apparati della sicurezza). I dati macro-economici e la disponibilità di notevoli riserve estere garantiscono lo spazio per interventi redistributivi. Ma entrambi i settori, in realtà, sono consapevoli che il paese deve riuscire a fare evolvere il proprio sistema economico: un sistema che resta fortemente vulnerabile alle oscillazioni dei prezzi delle materie prime, come dimostra il crescente deficit non-oil della bilancia dei pagamenti. Gli esperti stimano che se il prezzo del petrolio scendesse per un lungo periodo al di sotto dei 90 dollari, la Russia avrebbe forti difficoltà: economiche e socio-politiche.


Frustrazioni a parte, l’impostazione descritta ha una conseguenza: Europa e Stati Uniti restano, da punto di vista di Mosca, interlocutori indispensabili. L’Europa per la modernizzazione economica; gli Stati Uniti, per il rango internazionale che la ex-superpotenza riuscirà a mantenere.


Come si notava, nella percezione russa l’Europa è, prima dell’Ue, la Germania. La Germania con altri (il gruppo di Weimar con Francia e – ma con più difficoltà – Polonia). E l’Italia. Non si tratta di un esito ideale, per il Vecchio Continente: ma l’assenza di una vera e propria politica energetica comune e le differenze di percezione fra i membri vecchi e nuovi, l’hanno reso praticamente inevitabile. Berlino, prima degli altri, si è mossa con grande determinazione sfruttando la complementarietà delle due economie; e si sta trasformando in un hub per i flussi energetici che dalla Russia giungono in Nord Europa (Nord Stream). Lo stesso disegno che interessa, più a Sud, l’Italia.


L’Italia ha a sua volta gli strumenti per rafforzare il partenariato con la Federazione, facendo leva su una radicata presenza economica nel Paese, con oltre 500 imprese sul territorio e un volume in crescita di investimenti esteri diretti nelle due direzioni. La missione del Presidente del Consiglio del 23 luglio è stata la prima dall’inizio del nuovo mandato al Cremlino di Vladimir Putin e ha confermato la volontà di intensificare il dialogo strategico, avvalendosi di una serie di meccanismi esistenti: dai Vertici intergovernativi, che coinvolgono oltre ai capi dell’esecutivo numerosi Ministri, alle consultazioni in formato 2+2 dei Ministri degli Esteri e della Difesa – che si sono svolte a Mosca nell’aprile scorso. Seguite, in luglio, dalle visite dei Ministri Passera (potenzialità di sviluppo economico) e Severino (cooperazione nel settore della giustizia). Il punto è che la solidità dei rapporti economici e commerciali – per continuare a crescere in un contesto altamente competitivo – va alimentata e ribilanciata, rispetto allo squilibrio collegato alle importazioni di gas.


Nel corso della missione Monti sono state non a caso firmate – alla presenza del Primo Ministro Medvedev – sei intese industriali in settori di primaria rilevanza e di elevato potenziale come l’energia, i servizi, le costruzioni, la tecnologia ambientale, che si aggiungono alle tante collaborazioni industriali italo-russe già esistenti.


Dopo la Germania, l’Italia è il secondo fornitore europeo della Federazione Russa, con un intercambio che nel 2011 ha superato i 46 miliardi di dollari. Per una serie di piccole e medie imprese italiane, il mercato russo costituisce già una destinazione primaria. In una fase congiunturale in cui la domanda interna stenta a riprendere, si tratta di ossigeno necessario per il sistema produttivo italiano.


Per l’Italia, la Russia è quindi un partner strategico, anche se problematico: importante sotto il profilo economico ma importante anche per la definizione degli assetti di stabilità nello spazio europeo e mediterraneo, al di là delle innegabili divergenze. L’evoluzione della crisi siriana dirà quanto un partner bilaterale cruciale per alcuni dei principali paesi europei, fra cui il nostro, possa anche tornare a pensarsi come attore indispensabile dei futuri equilibri sull’arco di instabilità che va dal Mediterraneo al Mar Nero. Quanto più la Russia diventerà parte della soluzione, e non del problema, tanto più Mosca supererà le vecchie frustrazioni. Ritrovando, per questa via, una sua collocazione internazionale.