«Quando mi hanno cercata ero in Egitto, e credevo di essere anche in pensione». A sentir lei, Emma Bonino non ci pensava proprio di essere chiamata a fare il ministro degli Esteri all’indomani del compimento del 65° anno di età. Il curriculum però non le mancava. Mentre l’azione politica e la militanza per i “diritti civili” in Italia sono giustamente controverse, il suo impegno nelle tematiche internazionali è sempre stato guardato con rispetto da tutti. Nelle vesti di esponente del Partito Radicale transnazionale, di eurodeputato e di Commissario dell’Unione Europea per gli aiuti umanitari, la Bonino sin dal 1979 ha battuto le strade del mondo in lungo e in largo con campagne di mobilitazione e missioni non prive di pericoli. Balcani, Grandi Laghi africani, Corno d’Africa e Medio Oriente sono stati negli anni i teatri delle sue rischiose iniziative, mentre le campagne per il Tribunale per i crimini nell’ex Jugoslavia, la Corte penale internazionale e lo Stop alle mutilazioni genitali femminili hanno visto il suo decisivo contributo. Anche per ragioni personali è diventata esperta sul campo delle realtà del mondo arabo e soprattutto dell’Egitto. Da qui uno spiccato buon senso che si è visto anche nell’ultima riunione del Consiglio europeo dedicata alla crisi siriana.
Ministro, le posizioni che lei ha sostenuto al Consiglio europeo quando si è discusso della levata dell’embargo sulle armi alla Siria sono apparse più prudenti e pragmatiche di quelle che l’Italia aveva sostenuto in precedenza.
Ciascuno di noi auspica per la Siria un futuro di libertà, democrazia, rispetto delle donne e dei diritti delle minoranze, ma al di sopra di tutte queste aspirazioni, che condivido, il mio primo obiettivo è che cessino i massacri, che tacciano le armi. Ad oggi siamo tra gli ottanta e i centomila morti. Per questo dobbiamo cogliere l’opportunità rappresentata dall’iniziativa russo-americana per una seconda conferenza di Ginevra sulla Siria. Senza lasciarci andare a facili ottimismi: la conferenza non è stata ancora convocata, per riuscire a convocarla bisognerà lavorare duramente. Siamo molto lontani da una fissazione della data, della lista dei partecipanti e dell’ordine del giorno. Due punti però mi sembrano ineludibili. Il primo è che fra gli obiettivi di Ginevra II dovrà esserci l’applicazione di quanto stabilito da Ginevra I, dove si indicavano le tappe del processo di transizione che doveva avvenire in Siria, passando attraverso un governo di coalizione con esponenti delle due parti. Il secondo è che non si può pretendere, come fa una parte dell’opposizione, di condizionare la tenuta della conferenza alle dimissioni del presidente Bashar el Assad: la sua uscita di scena è l’oggetto del negoziato, non la precondizione.
Lei ha espresso delusione per l’esito del Consiglio europeo.
Quel che più mi dispiace è che dopo dodici ore di discussione la conclusione è stata una rinazionalizzazione di una decisione europea di politica estera. Il dibattito sulla Siria ha fatto una vittima istituzionale eccellente: la politica estera comune europea. Perché elementi dell’embargo deciso insieme l’anno scorso restano in vigore, ma la decisione sulle armi dal 1° agosto è demandata agli stati. Io sono certa che Francia e Regno Unito, i paesi che hanno voluto questo cambiamento, non cominceranno immediatamente a riversare grandi quantità di armi in Siria, e capisco che la loro minaccia di armare l’opposizione è un modo per farsi prendere sul serio da Damasco. Ma vorrei chiarire che chi non aderisce a questa linea non è un sostenitore di Assad, massacratore del suo stesso popolo, ma uno preoccupato di non far andare al potere una dittatura speculare a quella che si vuole abbattere. Se guardiamo a certe componenti dell’opposizione che si riunisce a Istanbul e quali paesi li sostengono, se guardiamo a Jasbat al Nusra, ad Ansar al Sham, non possiamo non essere preoccupati. Per me è chiaro che una soluzione militare alla crisi non c’è.
Lei s’è detta favorevole alla partecipazione dell’Iran a Ginevra II, e questo a molti non piace.
Lo so che questa cosa mi attira strali, ma la pace si fa con gli avversari. Non solo gli iraniani sono parte in causa in Siria, ma anche i russi: che facciamo, escludiamo pure loro? Capisco l’importanza del dossier del nucleare iraniano, ma il pragmatismo vuole che sia tenuto distinto dal dossier siriano, se come priorità abbiamo quella di mettere fine ai massacri, soprattutto quelli compiuti da Assad che sta riconquistando terreno. Per la pace nei Balcani abbiamo trattato con Milosevic e con Karadzic, poi la storia dei loro popoli si è incaricata di eliminarli. Il senso di responsabilità vuole che gli iraniani siano associati ai negoziati. Anche perché è sempre più evidente che è in corso uno scontro all’ultimo sangue nell’area fra sunniti e sciiti, non per ragioni religiose ma politiche, di egemonia regionale e di posizionamento strategico.
Sono passati due anni e mezzo dall’inizio delle Primavere arabe. Che valutazione dà della fase attuale?
Credo di essere più ottimista della maggioranza degli osservatori. Ci potranno ancora essere passi indietro in tema di libertà in quei paesi, ma su un punto non si tornerà indietro; la gente non ha più paura di parlare di politica ad alta voce, è caduto il muro del silenzio eretto dal terrore della repressione. Ora al posto di silenzio c’è molta confusione, ma i democratici cominciano a capire che la piazza è necessaria ma non sufficiente per cambiare la realtà politica. Sono un po’ preoccupata dell’atteggiamento della Ue, che continua a utilizzare un solo strumento d’intervento per tutti i paesi del Mediterraneo, mentre ci sarebbe bisogno di politiche differenziate per i vari paesi: Egitto, Tunisia, Libia, Marocco, ecc. sono diversi fra loro e in essi gli esiti della Primavera araba sono differenti.
Un paese importante che comincia a dare preoccupazioni è la Turchia.
Sono amica della Turchia e considero un errore aver bloccato la loro procedura di adesione all’Unione Europea: poi non possiamo lamentarci che cerchino un altro posizionamento strategico. Ma questo non mi impedisce di affermare che ci sono elementi preoccupanti nell’azione del governo turco, e non smetterò mai di ricordare che Italia e Turchia condividono il record di condanne da parte della Corte europea dei diritti umani: noi per le condizioni delle nostre carceri e la durata dei processi, loro per l’abuso della carcerazione preventiva.
Qual è la posizione italiana sul tentativo americano di riavviare il dialogo fra israeliani e palestinesi?
Dobbiamo mettere tutto l’impegno possibile per convincere gli uni e gli altri che si tratta dell’ultima chance. E che la soluzione due stati, due popoli e possibilmente due democrazie, è per ora o mai più. È chiaro che sia dentro la compagine governativa israeliana che all’interno dell’Autorità nazionale palestinese c’è gente che non è contenta di tornare al negoziato. La Ue voleva uscire con una sua dichiarazione, ma noi italiani ci siamo attivati perché non ci fosse un intervento del Consiglio europeo. Se volevamo mediare, dovevamo farlo prima; ora che siamo di fronte a un nuovo tentativo americano, dobbiamo fare il favore di non interferire.
A proposito della protesta a seno nudo di Amina in Tunisia, una scrittrice libanese ha detto: «Non voglio essere costretta a scegliere fra il burqa e il topless». Che ne pensa?
Condivido. Non discuto la libertà individuale di manifestare, la metto in discussione politicamente. Fermo restando il diritto individuale ad agire come si vuole, credo che il vero obiettivo di chi si impegna debba essere la libertà, e non il sostituire un modello all’altro, il topless al burqa. Il nostro terreno comune è di trovare gradualmente uno spazio di libertà e di rispetto reciproco. Perché senza rispetto non c’è libertà, e non conosco libertà senza responsabilità. La licenza non è libertà, e i diritti vanno insieme coi doveri. E se io ho il diritto di esprimermi ho anche il dovere di rispettare gli altri.
Lei è per un’Europa federale, ma ciò vorrebbe dire federalizzazione, mutualizzazione dei debiti sovrani nazionali. Questo Germania e paesi nordici non lo accetteranno mai.
Aspetterei a dire “mai”. La Francia si trova in recessione, e se la Cina continua a rallentare, nonostante gli sforzi della signora Merkel il mercato interno tedesco non tira. Senza una mutualizzazione del debito, senza un ministro del Tesoro europeo, che abbia la possibilità di tassare e spendere, gli shock asimmetrici non li risolveremo mai. La storia americana, da Hamilton in poi, ci dice che gli Usa nascono sulla mutualizzazione del debito delle guerre per l’indipendenza. Oggi gli unici stati pesanti sono gli stati nazionali, che gestiscono fra il 40 e il 50 per cento del Pil. Negli Stati Uniti il governo federale gestisce solo il 20 per cento.
Anche i popoli europei non sembrano più entusiasti dell’integrazione europea.
Io penso che bisogna andare verso un’unione politica. Siamo tutti d’accordo che la Ue così com’è non funziona, ma questo dovrebbe portare a un dibattito serio sull’alternativa Europa delle patrie o patria europea. Io sono federalista perché il federalismo è la sola istituzione europea che tiene insieme diversità, democrazia e accountability. Non voglio un superstato europeo. Solo alcune competenze devono essere comuni: la politica economica e monetaria, la difesa, gli esteri, la ricerca e i diritti di cittadinanza. Per tutto il resto, sussidiarietà. Sulla legislazione sul mercato interno farei anche dei passi indietro: è diventata troppo dettagliata, troppo intrusiva.
Lei è favorevole a politiche di maggiore apertura agli immigrati e di più semplice riconoscimento della cittadinanza. Ma fatti come la rivolta dei giovani di origine straniera delle periferie di Stoccolma e gli attacchi contro i militari a Londra dimostrano che anche politiche di integrazione avanzate come quelle svedesi e molto aperte come quelle britanniche non garantiscono i migliori risultati.
Non conosco paese al mondo che abbia avuto politiche dell’immigrazione senza problemi: si tratta, molto spesso, di contenere i danni. Uno straniero non è un santo per il fatto che è immigrato, così come nascere italiani non è garanzia di santità. Detto ciò, io penso che una politica di legalizzazione, con diritti e doveri riconosciuti, è una politica lungimirante.
Propone l’introduzione dello “ius soli”?
No, io sono per una progressività. Non è che se sei nato in un posto di per sé ne sei cittadino: penso che la cittadinanza sia più di questo. Dovrebbe essere graduale, ci devono essere dei criteri, come per esempio la scolarizzazione in Italia. I paesi che hanno introdotto lo ius soli automatico ci stanno ripensando. Ma è un tema che dobbiamo avere il coraggio di affrontare: chi paga le tasse ha il diritto a partecipare almeno al voto amministrativo. Così li si responsabilizza.