Quarant’anni fa il colpo di Stato in Cile fu un momento di svolta nelle relazioni tra l’America latina e l’Italia, sia da un punta di vista politico che di partecipazione popolare. Mai come allora si parlò di Cile e dei drammatici eventi che si susseguirono. Allende e Pinochet divennero personaggi quasi casalinghi, il termine “golpe” entrò nel lessico comune, così come la musica degli Inti Illimani era trasmessa dalle radio. Un’intera generazione di italiani scoprì con simpatia l’America Latina. Fino ad allora il sub-continente era rimasto circoscritto ai legami con la nostra immigrazione e alla rivoluzione cubana. Il Pci e la sinistra si avvantaggiarono di questa fase nuova mentre l’Italia stava cambiando, anche se negli anni Sessanta era stata la Dc a costruire il vero legame politico con i paesi latino americani. Fanfani ebbe l’intuizione, primo in Europa, di creare l’Istituto Italo Latino Americano, originale esperimento di organizzazione internazionale ponte tra i due continenti.
Nel 1973 tutta l’Italia – forze sociali, sindacati e partiti – condannò il golpe. Il Cile entrò nell’immaginario quotidiano e ci fu molta solidarietà, con l’accoglienza di numerosi cileni dissidenti. Circa 23 cittadini italiani fecero purtroppo parte dei “desaparecidos”, torturati e uccisi. L’Italia fu tra i rari Paesi occidentali, con Aldo Moro alla Farnesina, a non riconoscere subito il governo golpista e per mesi la nostra ambasciata divenne un rifugio per chi era minacciato. Molte vite si salvarono grazie all’Italia. Ne dà testimonianza il recente libro di Pietro De Masi che resse, con Roberto Toscano, l’ambasciata in quei mesi.
La vicenda cilena ha una sua pregnanza storica ancora attuale. Ci parla di un’Italia aperta sul mondo. Non fu il primo colpo di Stato dell’America Latina. Ce n’erano stati vari, ma nessuno suscitò una mobilitazione della nostra opinione con altrettanta persistenza. Chi visse quei momenti si ricorda delle ultime parole di Salvador Allende, che alla radio in quel drammatico il settembre disse che si poteva «morire per quelle cose senza le quali non vale la pena vivere». Nella nostra sinistra durò per anni il dibattito sulla giustificazione dell’utilizzo della violenza. Per un certo tempo Allende oscurò l’immagine del Che. Le stesse divisioni interne alla Dc cilena – tra chi sostenne il colpo e chilo contrastò – ebbero ampia eco in Italia. Il dibattito, che proseguì per anni, ebbe una svolta con il viaggio di Giovanni Paolo II del 1987. Recandosi in Cile, il papa già in aereo dichiarava “transitoria” la dittatura cilena. Andrea Riccardi nel suo Giovanni Paolo II la biografia descrive bene la preparazione e l’esito di quel viaggio, che inizialmente sembrò scandaloso con Pinochet in foto accanto al pontefice. Ma era la linea delle transizioni pacifiche di Wojtyla: schierare la chiesa affinché la dittatura fosse superata senza violenza. E così avvenne.
A 4o anni dal golpe e a più di 20 anni dalla fine della dittatura oggi il Cile è un Paese totalmente diverso che rielabora le ferite e prova a riconciliarsi. Le due future candidate alla presidenza, Michele Bachelet e Evelyn Matthei, si conoscono bene seppur figlie di due militari che furono su sponde avverse. Quella cilena è stata una transizione sui generis. Cosa rimane a noi della lezione cilena? Spenti i fuochi dell’ideologia e dello scontro, ci resta certamente l’esempio di una passione per la democrazia, per la politica e per il mondo. Oggi viviamo troppo ripiegati su noi stessi e dentro i nostri confini. Ma soprattutto, in tempi di globalizzazione, i nemici della democrazia sono più insidiosi: la rassegnazione che il mondo non si possa trasformare e che gli strumenti del dialogo e del libero confronto non siano in grado di darci valide risposte. L’amicizia e la passione che ci fu per il Cile ci ricorda che sempre si può lottare, anche a mani nude, per cambiare.