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Il Metodo Bonino (La Repubblica)

La conversazione da fine anno con Emma Bonino avviene alla vigilia del ritorno di Alma Shalabayeva e della piccola Alua. Si chiude una traversia che non avrebbe mai dovuto aprirsi.


Una traversia lunga sette mesi di polemiche chiassose e silenziose trattative certosine. La Farnesina era stata scavalcata al momento della deportazione da parte di un Ministero degli Interni compiacente. L’ambasciatore in Kazakhstan, Alberto Pieri, e i suoi collaboratori, hanno fatto la spola fra la capitale e Almaty, sollecitando una pratica giudiziaria complicata di intenzioni improprie. Conclusa provvisoriamente la quale, il governo kazako ha autorizzato l’espatrio. Si dice che le autorità avessero richiesto una cauzione di un milione di dollari, che sarebbe parsa un’estorsione, poi ridotta alla metà, e che alla fine abbiano preso in garanzia la casa di famiglia ad Almaty. L’intera questione si è appesantita strada facendo di implicazioni improprie e indelicate: lo scambio supposto fra la signora trattenuta in Kazakhstan e la richiesta di estradare il marito, Mukhtar Ablyazov, tuttora detenuto in Francia; le illazioni sui rapporti coniugali o sulle linee seguite dalla difesa di Ablyazov, forse persuasa che lo scandalo per il trattamento da ostaggi di madre e figlia giovasse al rifiuto dell’estradizione. Groviglio inutile da sbrogliare, dal momento che il proposito strenuo dell’Italia, dopo la vergognosa deportazione, era di riportare le cose al punto da cui erano deragliate: la libertà di madre e figlia di muoversi in Europa, e scegliere dove abitare. È quello che è finalmente successo quando l’ambasciata italiana ad Astana ha consegnato i nuovi passaporti con il visto Schengen. A questo punto, dove e quando andare è solo affar loro. All’Italia la consolazione di aver rattoppato uno strappo umano e civile di cui portava intera e dichiarata la colpa. Intanto, un accordo col Kazakhstan sullo scambio penale fa sperare per un altro caso drammatico, la detenzione del funzionario dell’Agip Flavio Sidagni, 58 anni, condannato dal 2010 a sei anni di carcere duro per il possesso di 120 grammi di hashish.


Drammi umani che si tramutano in controversie politiche, e vengono spesso cavalcate a uso interno. Il più grave è quello dei marò Latorre e Girone in India, ereditato da una gestione disastrosa, e sottoposto a un’altalena di notizie strumentali, fatte per mettere a repentaglio la resistenza loro e dei loro cari. Un diplomatico sperimentato come Staffan de Mistura vi si dedica pressoché esclusivamente, coi suoi collaboratori. E le adozioni congolesi, che sembrano avviate a soluzione. Il giovane D’Alessandro di Greenpeace, liberato a Mosca. E i tifosi laziali a Varsavia. Ogni volta, qualcuno chiede che il ministro parta e vada a farsi consegnare personalmente i nostri connazionali: «Se servisse davvero, non ci sarebbe problema: non c’è niente che mi piaccia più che partire per qualunque posto della terra e andare a soccorrere chi è nei guai. Il fatto è che se facessi così i guai rischierebbero di aggravarsi. Stamattina mi chiamano e mi dicono: Sono morti due italiani in Nepal, e lei che cosa fa? Che cosa faccio: sono qui, coi miei collaboratori, come ogni giorno che Dio manda, feste comprese». E qui, a Santo Stefano, come farebbe il punto di fine anno sulla politica estera italiana?


«Da dove cominciamo? In Turchia ogni ora porta cambiamenti, e può darsi che il calendario che va dalle elezioni amministrative alle politiche si inverta. Tutto è in un movimento convulso. Da mesi ormai allo scontro fra sciiti e sunniti si è sovrapposto quello interno ai sunniti: Qatar e Turchia versus Arabia Saudita, Kuwait e Emirati. C’è una lotta di successione nella dinastia saudita. La religione è causa e pretesto di uno scontro violento. E poi ci sono gli interessi geopolitici delle grandi potenze. L’Ue, si sa, non ha una politica estera, salve rarissime evenienze. Francia e Regno Unito si accontentano del Consiglio di Sicurezza, e lasciano a Bruxelles la mera ratifica. Gli interventi francesi in Africa, benemeriti per definizione, sono propaggini della storia. Ho sentito dire a Bruxelles: “Ci crederò la prima volta che interverranno in un paese anglofono”. E’ comprensibile: noi conosciamo meglio di altri la Libia, anche per i nostri errori. Se dovessi riassumere, direi che l’Italia, nei suoi limiti, si muove lungo tre linee, ovvie a dirsi: rianimare il multilateralismo dell’Onu e del Consiglio -sono quel che sono, ma non c’è altro; rafforzare l’integrazione europea; e poiché la crescita passa attraverso i rapporti internazionali, assecondarla con l’azione di governo. Ci sono regioni cui storia e geografia ci danno una responsabilità peculiare, come i Balcani: vanno avanti Serbia e Albania, stanno in limbo Bosnia e Macedonia… Mi rallegro di una sintonia con il presidente del consiglio, tutt’altro che scontata. Mi chiedi se l’europeismo di Letta non sia una fuga in avanti, pronunciare parole giuste sapendo che vanno al di là di un futuro praticabile. Non direi. Le resistenze nazionali si sono indurite, e il rischio delle elezioni europee è che ne esca una paradossale maggioranza euroscettica. Eppure… Chi credeva alla moneta unica nel ’92? Cinquecento milioni di persone come potrebbero vivere assieme se non in una mentalità e una struttura federale? Indicare tenacemente una direzione non è questione da poco, tanto più quando grandi partner non andrebbero oltre la relazione fra governi. Obietti: gli F35 oggi, la Difesa comune domani. Ma proprio la Difesa comune è un tema popolare e non populista: alla gente è chiara l’insensatezza di 28 eserciti e 190 miliardi di spesa, benché le riduzioni imposte dalla crisi siano universali: e nemmeno le riduzioni mettiamo in comune, tutti tagliano le stesse cose! Certo, la politica europea non è più una competenza primaria degli esteri, quando crisi e moneta comune la fanno confiscare dall’Ecofin. Per questo cerco di mettere a dieta le rappresentanze diplomatiche europee a vantaggio della presenza altrove, da Ashgabat alla Cina. Il nostro bilancio degli esteri è dello 0,2 % contro l’1,5 / 2 dei nostri partner maggiori».


«Che l’Unione avanzi o retroceda è essenziale anche per quello che succede fuori. In Siria, due anni e mezzo fa, siamo stati presi alla sprovvista, o abbiamo fatto finta. La comunità internazionale ha reagito con l’inerzia, e, a cose compromesse, col senno di poi. Lo scontro aveva mutato natura, e il criminale Assad ne è finito rafforzato perché l’opposizione ha raccolto banditi di ogni risma e provenienza, aggiungendo una guerra fra famiglie sunnite: a questo punto perfino chiamarla guerra civile mi sembra improprio. Che cosa si sarebbe ripromessa una punizione militare di Assad il 21 agosto? Chi avrebbe messo un piede, e non solo bombe dall’ alto, in una Siria arrivata a quel punto? Il Papa ne parla oggi come di uno scampato pericolo, al quale si adoperò con la potenza della preghiera. Ma la difesa degli inermi non è venuta. Se il rafforzamento internazionale di Assad dipende dai suoi cinici protettori, quello interno dipende dalla catastrofe dell’opposizione e dalle scorrerie terroristiche. Il 22 gennaio, a Ginevra2 saremo una trentina di paesi (Ginevra 1 avvenne senza noi e i tedeschi). Brahimi dovrà farci arrivare un’opposizione siriana appena rappresentativa, ma per ora i vari gruppi attraversano una ostilità e diffidenza parossistiche».


«Mi è sembrato che l’elezione di Rouhani in Iran permettessero, e anzi costringessero, a provare un’altra strada. Provare, dico, perché le riserve di chi le avanza, il governo di Israele o il Congresso americano o altri, non sono affatto un’esclusiva: chi non avrebbe riserve? Tagliare corto è facile, lo si fece con Khatami, e vennero gli 8 incredibili anni di Ahmadinejad. C’è un Iran che ha voglia di nuovo e di democrazia, e c’è un Iran che, con un 35-40 % di inflazione, ha bisogno di tornare anche economicamente al gioco internazionale. Che cosa resta se non metterlo e mettersi alla prova? Mi chiedi qual è la sensazione più forte che riporto da Teheran: quella dell’incombenza di un’ala estremista che ha dovuto rassegnarsi alla svolta elettorale, ma lascia pochissimo spazio e tempo al tentativo di apertura. Suoi esponenti di rilievo sono passati trasformisticamente nel nuovo governo. Non faccio previsioni, tanto meno sulla successione alla Guida Suprema, Khamenei. Ma non è alle previsioni che dobbiamo affidarci, bensì alle possibilità, per assecondare le migliori. Mi meraviglio di sentirmi addebitare un’idilliaca disposizione irenica, così lontana da me. E di ogni mossa che il governo italiano e io facciamo, sono informati in piena lealtà i nostri alleati, prima e dopo, come dovrebbe sempre avvenire. Noi teniamo in gran conto le loro preoccupazioni, loro tengano nel giusto conto i nostri sforzi: la partita è comune».


«In Egitto, sembra di nuovo che non ci sia alternativa fra fanatismo teocratico e regime militare. Messi fuorilegge tutti i Fratelli musulmani, ci si fermerà o si procederà oltre? Il regime dipende per intero dagli Emirati e dall’Arabia Saudita, che a casa sua i Fratelli musulmani li sterminò. E’ una morsa: se fai le riforme perdi le elezioni, se non le fai so – pravvivi solo grazie ai foraggiamenti esterni.


Tutto è in movimento. Bisognerebbe guardare all’insieme, al globo, piuttosto che alle singole mappe. Il gas nel Mediterraneo, per esempio, fra Cipro, Israele, Turchia, Grecia, può ridimensionare impensabilmente i paesi produttori.


Mi chiedi della Russia di Lavrov: un provato prefessionista. Persegue la realpolitik di potenza globale che Putin vuole riavere, prima ancora che per interesse, per lavare l’onta della disgregazione imperiale. Medvedev mirava a modernizzare l’economia, senza successo; la Russia produce poco ed esporta materie prime. Finché il petrolio costa caro, le va bene così. Preoccupazioni interne, ne ha poche. I diritti umani, in tempo di globalizzazione, più che nella direzione occidente- oriente, sembrano viaggiare in direzione opposta, sospinti dal vento dell’est delle autocrazie e della finanza inesorabile. Qualcuno disse: “Peccato che il petrolio non si trovi in Svezia”. Poi si è trovato in Norvegia. A volte però penso che se in Svezia e perfino in Svizzera e a Treviso si fosse trovato il petrolio invece che nelle autocrazie in cui si trova, lo scandalo del mondo diseguale avrebbe raggiunto e oltrepassato il settimo cielo».