La guerra in Iraq, i rischi per l’Occidente. Parla Lapo Pistelli, vice ministro degli Esteri con delega anche su Iraq e Iran.
Le milizie jihadiste marciano su Baghad
«Anzitutto occorre spegnere l’incendio. Questo comporta impedire che l’avanzata di Isis possa raggiungere la capitale. Che l’Iraq fosse già diviso in tre aree quella curda, quella sciita e la parte restante segnata negli ultimi anni da violenze crescenti – era noto a tutti. Il processo elettorale, nonostante attentati e autobomba, si era comunque svolto regolarmente. E questo forse ha illuso la comunità internazionale che l’Iraq si fosse rassegnato a convivere con la violenza, ma andando comunque avanti…».
Invece?
«L’offensiva di Isis ha l’obiettivo di rompere, senza rimedio, l’unità del Paese. Perciò le iniziative di queste ore, prima di ogni considerazione politica, devono intanto spegnere il fuoco».
Ma come raggiungere questo obiettivo?
«Si è molto discusso in questi ultimi giorni del discorso di Barack Obama a West Point. Qualcuno ha parlato di un’America riluttante, di un rischio isolazionista. In realtà, il presidente americano ha rilanciato il valore del multilateralismo e della diplomazia preventiva, ma non ha escluso l’uso della forza quando interessi fondamentali della sicurezza nazionale siano in gioco. Da qui la valutazione in corso sull’uso dei droni per fermare le colonne in marcia dell’Isis. Sull’altro fronte, va sottolineato l’appello dell’ayatollah al-Sistani – massima autorità dello sciismo iracheno – ad arruolarsi volontari nell’esercito iracheno per fermare il “terrorismo sunnita”. La qual cosa se per un verso dà notevole valore aggiunto alla controffensiva militare, dall’altro consolida la frattura settaria fra sciiti e sunniti. Certo, la resa troppo rapida delle tre brigate sunnite a Mosul e Tikrit davanti all’arrivo di Isis, ha legittimamente insospettito il presidente al- Maliki, sciita».
In campo sono scesi, e con successo, i Peshmerga curdi.
«È la conferma di un dato da sempre noto a tutti gli iracheni: i combattenti Peshmerga sono considerati efficaci ed estremamente leali. Non è un caso che il governo di Baghdad preferisse affidare ai curdi anche il controllo dei ceck-point della capitale, perché troppe volte si era sospettato che altre forze di sicurezza si facessero corrompere per far passare le auto imbottite di esplosivo pronte a detonare nei quartieri sciiti di Baghdad. Va detto che nonostante le tensioni politiche non infrequenti fra governo regionale curdo e quello iracheno, in questi giorni i curdi hanno messo in sicurezza decine di migliaia di persone in fuga, incluse le minoranze cristiane presenti in particolare nella zona di Ninive».
Dall’Iraq in fiamme alla guerra senza fine in Siria. Il Medio Oriente torna ad essere l’area più destabilizzata del mondo?
«Purtroppo è così. Probabilmente nessuno avrebbe scommesso un anno fa che il negoziato diplomatico più vicino a un possibile successo fosse quello sul nucleare iraniano. E invece forse sarà così. Quanto alla Siria, prosegue un sanguinoso conflitto a media intensità e, come ci dimostrano i fatti di questi giorni, proprio lì si è radicato un progetto jihadista aggressivo che intende riscrivere le mappe della regione».
Per tornare all’Iraq. C’è rischio per gli italiani presenti nel Paese?
«Abbiamo sconsigliato di viaggiare in tutto il Paese, con l’eccezione di Herbil e di altre città del Kurdistan. Fortunatamente gli italiani presenti nel resto del Paese sono pochi e tutti in costante contatto con l’ottimo team della nostra ambasciata a Baghdad».
Con gli occhi del presente, è una forzatura affermare che l’Iraq paga oggi la sciagurata guerra di George Bush jr?
«Certo che l’alternativa fra un dittatore sanguinario e laico e un progetto sanguinano jihadista, non è un granché. Quando i neocon abbatterono Saddam si nutriva l’illusione di una facile democrazia laica e liberale, un’illusione appunto. Si è aperto, invece, un vaso di Pandora. La strada di un Islam rispettoso del pluralismo democratico o anche di una democrazia fondata su valori islamici, è ancora lunga».
E l’Italia come può contribuire ad accorciarla questa strada?
«Paradossalmente, senza scorciatoie. Cioè ingaggiando, formando, accompagnando, la nuova generazione araba ad assumersi le responsabilità di una inesorabile modernizzazione».