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Gentiloni: “Un Paese da riunificare. L’Italia resterà sempre in prima linea” (La Stampa)

Alla speranza delle Primavere è subentrata nel mondo arabo un’atmosfera in cui si mescolano paura e disillusione. Certo, l’esperienza tunisina è ancora lì a dimostrare che non tutte le promesse sono andate perdute. E l’attuale stabilità di un grande paese come l’Egitto mette l’intera regione al sicuro da rischi maggiori.


Ma è difficile chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Le primavere arabe avevano seminato in Occidente una grande speranza di libertà anticipata dal discorso del presidente Obama al Cairo. Il raccolto è stato magro. Non solo: al progressivo ripiegamento delle speranze «rivoluzionarie» è presto subentrata una spinta di tutt’altro genere. Dalla democratizzazione dei regimi si è passati nel giro di quattro cinque anni alla messa in discussione dei confini. L’eredità del 1916 è minacciata da una sfida senza precedenti. Daesh, il terrorismo che si fa Stato. Che taglia gole e rende schiave ragazze innocenti, ma al tempo stesso occupa territori ed eroga stipendi. È in questa brusca giravolta della storia che si colloca la crisi libica, oggi la principale minaccia alla nostra sicurezza nazionale. La Libia è stata investita dalle primavere arabe in modo del tutto anomalo. La particolare ferocia del suo dittatore e l’accentuata debolezza delle sue strutture civili hanno portato a una rimozione forzata di Gheddafi, abbattuto con il contributo determinante di un intervento militare esterno. Un intervento forse inevitabile, probabilmente subìto da un’Italia che attraversava uno dei momenti di sua maggiore debolezza, certamente privo di qualsiasi progetto di ricostruzione di una capacità statale. Oggi ne paghiamo le conseguenze con il vuoto istituzionale nel quale affiorano anche vere e proprie enclaves di terroristi islamici. Errori e delusioni non possono tuttavia giustificare alcun disimpegno da parte nostra. La Libia è troppo importante. Per la nostra sicurezza, per gli approvvigionamenti energetici, per l’impatto dei flussi migratori (dei 165 mila migranti che nel 2014 hanno raggiunto le nostre coste, oltre i1 90% lo ha fatto transitando per la Libia). Abbiamo un ruolo da giocare, e questo ruolo ci viene riconosciuto anche dai nostri Alleati e da tutti i paesi della Regione. L’obiettivo da raggiungere è ristabilire l’unità della Libia e avviare un percorso di ricostruzione di istituzioni unitarie e di un governo di riconciliazione tra le forze moderate presenti nei diversi campi che oggi si confrontano.


So bene che si tratta di una strada stretta e in salita. Ma chi considera inevitabile, o incoraggia addirittura la divisione della Libia sta scherzando con il fuoco. Se pensare a una Cirenaica «buona» è un azzardo, rassegnarsi all’idea di una Tripolitania trasformata in una sorta di «bad company» ostello di gruppi estremisti e terroristi sarebbe un incubo. Anche perché la Tripolitania è la regione più vicina alle nostre coste e dove maggiore è la presenza di interessi economici nazionali.


Dunque, una sola Libia. Secondo gli obiettivi individuati dall’inviato dell’Onu Bernardino Leon, che sta cercando di avviare il percorso di una riconciliazione nazionale. E che l’Italia appoggia anche grazie alla presenza della nostra Ambasciata, unica ancora aperta a Tripoli tra i paesi occidentali.


Il messaggio dell’Italia è chiaro, l’abbiamo condiviso la scorsa settimana con i nostri principali alleati a Bruxelles, lo confermeremo martedì negli incontri previsti a Washington, lo stiamo confrontando coni principali paesi della regione. Tutti devono sostenere la mediazione Onu, sospendendo violenze e bombardamenti ed evitando la spartizione delle poche istituzioni unitarie superstiti, in primis la Banca centrale. Se la mediazione non ottenesse i risultati sperati, la rilanceremo a un livello ancora più forte. E appena si cominceranno a intravvedere i primi passi sulla via di una ricostruzione istituzionale siamo pronti a collaborare ad attività di monitoraggio o di peacekeeping sotto le bandiere delle Nazioni Unite. Il tempo corre, ma possiamo ancora impedire conseguenze peggiori per la Libia e per il nostro Paese.