Gentiloni: «Cristiani perseguitati, basta silenzi L’Ue non si rinchiuda nell’egoismo»
di Angelo Picariello
Sulla persecuzione dei cristiani l’Italia è impegnata in Europa a tenere alta l’attenzione e a offrire solidarietà con specifici progetti. Sarebbe da ignavi essere complici di quel silenzio denunciato da papa Francesco».
Così il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, reduce da una visita in Kenya, dopo i tragici fatti dell’università di Garissa. «Contro il Daesh (l’acronimo arabo dello Stato islamico, ndr) serve una strategia a più livelli. L’opzione militare è in campo, ovviamente limitata e proporzionata e senza immaginare di esportare modelli politici con le armi. Del resto sul piano militare siamo già in prima fila, dal Libano alla Somalia, dall’Iraq alla Siria. Sul piano politico, la vera sfida investe il mondo islamico perché le forze che si contrappongono al fondamentalismo abbiano la meglio. Come mi ha detto il re di Giordania Abdullah II «questi rinnegati li dobbiamo vincere soprattutto noi».
Ma nell’Ue sembra non esserci sufficiente consapevolezza…
Dobbiamo farla crescere. Non possiamo rinchiuderci nel nostro egoismo, illuderci di poter alzare muri o peggio alimentare campagne di odio come fa certa destra in Europa. È un errore, fa prendere qualche titolo sui giornali, e non mette minimamente al riparo dai rischi. Il tema dell’immigrazione dall’Africa caratterizzerà i prossimi 20 anni, forse 40, visti i diversi livelli demografici e di benessere. Va quindi regolato, non combattuto. Un flusso migratorio regolato non sarebbe una minaccia, ma un’opportunità.
Abbiamo avuto un gran numero di sbarchi e purtroppo non poche tragedie. Con la bella stagione la situazione può ulteriormente peggiorare?
Non possiamo escluderlo, ma neanche avallare cifre avventate che si sono sentite. Noi stiamo intervenendo sia nei Paesi di transito per combattere questi trafficanti, sia nei territori di provenienza, con interventi di cooperazione nel Corno d’Africa, nell’Africa centrale e nel dramma creato dalla guerra in Siria. Ma scontiamo il problema, in Libia, della mancanza di un governo.
In Kenya che situazione ha trovato?
Un paese sotto choc anche se il Kenya purtroppo non è nuovo a episodi di terrorismo. Della strage di Garissa, a parte le dimensioni, colpisce la selezione fatta dai killer che si sono accaniti sugli studenti di religione cristiana. Il luogo scelto è la conferma che il terrorismo islamico prende spesso a bersaglio gli studenti. Cultura e istruzione sono un nemico, dai taleban a Boko Haram, la cui sigla in italiano significa «l’educazione occidentale è un peccato».
Nel suo incontro con il Governo e con il cardinale Njue a Nairobi, che preoccupazioni ha trovato e che aiuti abbiamo potuto offrire?
Con il governo ci siamo impegnati a collaborare contro il terrorismo. E in modo speciale in campo universitario, offrendo per gli studenti sopravvissuti del campus di Garissa, borse di studio e corsie preferenziali per visti in Italia. C’è già un gruppo di 9 università italiane che si sono messe a disposizione: il governo ha molto apprezzato e chiederà anche ad altri paesi europei misure analoghe. Il cardinale Njue mi ha descritto la situazione della comunità cristiana. L’impatto è stato particolarmente drammatico nelle regioni del Nord, verso il confine con la Somalia, meno, per fortuna nella capitale, dove la partecipazione alle funzioni della settimana santa non è stata limitata dalla paura. Abbiamo anche discusso di possibili progetti comuni tra la Cooperazione italiana e la Caritas.
Il Papa ha denunciato un silenzio complice.
Purtroppo è una malattia dell’Europa di oggi quella di voltarsi talvolta dall’altra parte. Penso a quanto accadde venti anni fa a Srebrenica. Per questo il richiamo del Santo Padre interpella tutti. Denunciare la persecuzione dei cristiani è un dovere di ogni cittadino al di là delle convinzioni religiose di ciascuno. Questa persecuzione minaccia la sopravvivenza stessa dei cristiani nei luoghi che furono la culla della fede come ha ricordato Francesco nella sua lettera di dicembre ai cristiani d’Oriente. Ero a Erbil e ricordo l’enorme impressione fatta da quella lettera nel campo profughi gestito dalla Chiesa Caldea che stavo visitando.
Tornando alla minaccia terroristica lei vede un’unica saldatura tra Al Shabaab in Kenya e Is.
In Yemen e in Somalia ci sono le radici più antiche di Al Quaeda, i primi attentati alle ambasciate americane avvenuti anche prima delle Torri gemelle. Da questa storia viene Al Shabaab, un fenomeno autonomo dal Daesh. Ma in Kenya mi hanno confermato che anche lì crescono , almeno sul piano della propaganda, i richiami al sedicente califfato nero.
In Libia Is è solo una bandiera, o una minaccia concreta?
Ci sono stati anche lì episodi gravissimi come i 21 copti egiziani sterminati e ci sono gruppi locali che pur essendo autonomi come Ansar al-Sharia, tendono ad usare le insegne del Daesh. Sono concentrati in alcune zone di Bengasi, Derna e Sirte. Sono combattuti sia del governo di Tobruk che dalle milizie di Misurata. Ma se non si riuscirà nel tentativo di conciliazione portato avanti dall’inviato dell’Onu Bernardino Leon il rischio che queste gruppi isolati si espandano è notevole. Come in Somalia, gruppi terroristici isolati possono crescere in un contesto di fallimento dello Stato. Con la differenza che questo fallimento, nel caso della Libia, rischia di consumarsi a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste.
Il Mediterraneo è dunque una minaccia?
Siamo al centro del Mediterraneo crocevia di crisi, ma anche di grandi opportunità. Fino a 20 anni fa consideravamo l’Africa un Continente perduto, oggi è certo minacciata dal terrorismo è da diverse crisi locali, ma sta tornando a sperare nella riduzione della povertà e delle malattie, nella crescita e nello sviluppo dell’istruzione. Su questa speranza dobbiamo investire il patrimonio di relazioni che abbiamo con i Paesi dell’Africa del Mediterraneo e del Medioriente. Anche per regolare i problemi dell’immigrazione, come avvenuto negli ultimi 10 anni con il Marocco è la Tunisia.
C’è un concreto rischio terrorismo in Italia?
Dai nostri Servizi non ci sono segnalazioni particolari di minacce di attentati. Ma l’allerta delle nostre forze di sicurezza deve rimanere alta.
La guerra è l’avanzata del terrorismo stanno provocando una vera e propria crisi umanitaria. Oggi in Siria c’è una grande emergenza bambini?
La situazione a Yarmouk è allarmante. L’Italia è in prima fila con uno stanziamento di emergenza , un milione e mezzo di euro, indirizzato a Unicef e Unrwa, l’organizzazione dell’Onu per i rifugiati palestinesi. Occorre fare presto per aprire corridoi umanitari che consentano di far fronte all’emergenza. Ma l’emergenza rifugiati siriani non si vive solo alle porte di Damasco, alcuni Paesi ne sono investiti drammaticamente. Due settimane fa la Cooperazione italiana ha stanziato altri venti milioni di dollari. Lavoriamo soprattutto in Libano e in Giordania dove 10 giorni fa ho visto all’opera un ospedale costruito dall’Italia in un campo che ospita 20 Mila rifugiati siriani.
La Tunisia è stata un simbolo di speranza. non lo è più dopo l’attentato al museo del Bardo?
Quella strage per quanto drammatica , anche perché ha provocato la morte di quattro nostri connazionali, non può cambiare il giudizio su quel paese. La reazione all’attentato è stata forte e positiva, ha visto mobilitarsi insieme partiti laici e Islamici. La Primavera tunisina ha retto alla sua prova più difficile. Ora, oltre alle testimonianze di solidarietà servono aiuti concreti. L’Italia si è impegnata nella cancellazione di una parte del debito e in diversi progetti di cooperazione. Con il mio collega francese Fabius stiamo proponendo all’Unione Europea di intervenire per promuovere investimenti e gemellaggi tra regioni del nostro continente e le regioni più disagiate dell’interno della Tunisia. È una terra di speranza che non dimenticheremo.